Il programma economico della Costituzione e il «nuovo modello di sviluppo» alla luce del pensiero di Federico Caffè

di Giuseppe Amari

Come è noto, Federico Caffè svolse un ruolo fondamentale ai tempi della Costituente.

Ricordo brevemente il suo impegno in Banca d’Italia, insieme a Paolo Baffi, con i Governatori Vincenzo Azzolini, Donato Menichella, Luigi Einaudi; come l’ «economista più ferrato» (Leo Valiani) del gruppo dossettiano; come giovane economista diffusore della «nuova economia keynesiana» e a conoscenza dell’esperimento laburista di Attlee e Bevan che seguiva da Londra con «simpatia non scevra di adesione ideologica»[i]; come componente della Commissione economica per la Costituente; ma, soprattutto, accanto a Meuccio Ruini, il vero motore dei lavori costituenti e ministro prima dei Lavori pubblici con il secondo Governo Bonomi e poi della Ricostruzione con il Governo Parri. Ruini, era anche a capo del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica a cui contribuivano, in diverse sezioni, i maggiori studiosi e operatori economici del tempo, a cominciare Luigi Einaudi, Costantino Bresciani Turroni, Gustavo Del Vecchio, Giovanni Demaria[ii].

Dalla testimonianza diretta di un giovanissimo giornalista parlamentare, ancora attivo, sappiamo di Caffè che, quando poteva, ascoltava ammirato il grande dibattito costituente che si sviluppava in quell’aula[iii].  Si considerava un economista «passionate» e in lui si può riconoscere lo spirito che animava le madri e i padri costituenti. Si capisce così meglio la sua frase, di fine anni settanta, che possiamo ancora, e a maggior ragione, ripetere oggi: «Si va alla ricerca nominalistica di un «nuovo modello di sviluppo» e si dimentica che nelle sue ispirazioni ideali si trova nella prima parte della Costituzione, nelle condizioni tecniche nei lavori della Commissione economica della Costituente»[iv]. Si può sostenere che Caffè nel suo impegno di intellettuale, di insegnante, di pubblicista (di «consigliere del cittadino», come gli piaceva dire), ebbe sempre la Carta Costituzionale come base della sua ispirazione e dei suoi programmi di ricerca e di proposta.

Una lezione epistemologica a cui Caffè assegnava molta importanza, ripresa nella sue lezioni, è quella di Gunnar Myrdal, economista e politico socialdemocratico svedese, impegnato a livello internazionale sui problemi della discriminazione razziale e dello sviluppo dei paesi arretrati, premio Nobel nel 1974 per l’economia.

In un suo noto saggio sulla filosofia dell’economia (ma vale per tutte le scienze), affermava che, non potendo evadere dalle nostre «premesse di valore», ne siamo coscienti o meno, è questione di onestà intellettuale renderle esplicite all’inizio di ogni lavoro[v].

È quello che fecero i nostri costituenti nel rifondare la nuova convivenza nazionale dopo l’esperienza del regime fascista; e nuova anche rispetto alla situazione precedente e allo Statuto Albertino. Le «premesse di valore» sono nei 12 «Principi fondamentali» che informano la Parte I: «Diritti e doveri dei cittadini» e la Parte II: «Ordinamento della Repubblica». Le modifiche certo possibili di questa seconda parte, e di cui si incominciò a parlare subito dopo l’approvazione della Carta, debbono avvenire, dunque, in coerenza con quei Principi fondamentali e auspicabilmente con il medesimo afflato unitario, e a prescindere dagli equilibri di governo, come avvenne, onde evitare confusioni e danni[vi]. La Parte I, è poi articolata nel Titolo I: Rapporti civili, in cui si riconosce la prevalente ispirazione liberale; nel Titolo II: Rapporti etico sociali, in cui si riconosce la prevalente ispirazione del «personalismo» cristiano sociale.

«Principi fondamentali» e Rapporti civili ed etico sociali che sono anche le «premesse di valore» del programma economico della Costituzione.
Infatti a quei due titoli segue il Titolo III: Rapporti economici, in cui si riconosce la prevalente ispirazione delle sinistre. A questi segue, in un percorso logico, il Titolo IV: Rapporti politici che, insieme alla Parte II: «Ordinamento della Repubblica», pone le condizioni per una piena partecipazione alla vita politica democratica; in uno Stato di diritto, fondato sulla centralità del Parlamento e la nota separazione dei tre poteri: il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario.

Emerge una visione solidale in cui dall’impegno di ciascuno secondo la «propria possibilità e la propria scelta» viene chiesto un contributo al «progresso materiale e spirituale della società» e ad ognuno assegnato un contributo secondo i propri bisogni. Possibilità e bisogni che vengono favorite e sollecitate e individuati dalle stesse norme costituzionali. Bobbio e Dossetti riconoscono che la Costituzione è una riuscita sintesi delle tre idealità principali del Novecento: quella liberale, quella socialcomunista, e quella cristiano-sociale. L’art. 3, è forse il più evidente e il miglior risultato di tale convergenza e un unicum rispetto ad altre Costituzioni. E sollecita l’intervento attivo dello Stato.

Dopo aver ribadito, nel primo comma, la pari dignità sociale ed eguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, si pone il problema, nel secondo comma, di renderle effettive: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà, l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

«Diritti sociali» che, come sottolineava Piero Calamandrei si pongono, grazie in particolare al pensiero di Carlo Rosselli, come veri e propri diritti di libertà per il «pieno sviluppo della persona»[vii]. Caffè, che spesso invitava i politici a ricordare questo articolo, sintetizza bene la «visione» della nostra Costituzione, quando scrive: «L’ideale è quello di costruire un mondo in cui lo sviluppo civile e sociale non sia il sottoprodotto dello sviluppo economico ma un obiettivo coscientemente perseguito»[viii].

Di qui il suo rifiuto dello scambio tra efficenza e equità.

Un concetto analogo lo esprimeva il Presidente Americano del New Deal, Franklin D. Roosevelt, negli anni Trenta: «Progrediremo realmente? Il vero problema è se dobbiamo permettere che le nostre difficoltà economiche e la nostra imperfetta organizzazione frustrino il sano e sostanziale sviluppo del nostro governo civile»[ix][x].

Le sue famose «quattro libertà» erano ben presenti ai nostri costituzionalisti: liberta di parola, di religione, libertà dalla paura e libertà dal bisogno. Dove le diverse preposizioni indicano, come fa notare sempre il Calamandrei, il diverso ruolo dello Stato: di garanzia passiva nel primo caso, di intervento attivo nel secondo. Emerge una visione più ampia e profonda rispetto a quella pur importante dello «sviluppo equo e sostenibile» che, se mai, ne è una componente strumentale. Ma una lezione non recepita, perché, da decenni, alle crisi economiche più o meno gravi fa seguito una regressione civile e sociale: è il «lascito avvelenato di Hayek e Friedman», denunciò Samuelson dopo la crisi del 2008[xi].

Una regressione[xii], che si accompagna anche a quella democratica poiché, come riconoscevano Norberto Bobbio e Luigi Ferrajoli già negli anni ottanta, Stato sociale e Stato di diritto sono strettamente correlati. Al progressivo abbandono del primo corrisponde il deperimento del secondo[xiii]. Per le «condizioni tecniche» del «nuovo modello di sviluppo», Caffè rinviava ai lavori della Commissione economica per la Costituente. In una intesi di quei lavori Caffè così concludeva: «[…] In breve il “modello di sviluppo” che emerge dagli studi della Commissione economica non coincide con una liberalizzazione senza programmazione, come si è poi di fatto verificato. Prospetta bensì un’economia protesa verso il ripudio del restrizionismo autarchico e la riconquista della libertà degli scambi; ma, proprio in vista del ripristino di margini adeguati di concorrenzialità, fa affidamento su un valido apporto di infrastrutture, su idonee misure antimonopolistiche, sull’imbrigliamento del credito in funzione della programmazione. Non è di certo un’economia che edifichi lo sviluppo degli scambi internazionali sui bassi salari quella che viene delineata negli studi della Commissione economica, quando siano considerati nella loro coerente unità, e non attraverso enucleazioni di comodo»[xiv].

I temi centrali delle proposte di Caffè trovano puntuali riscontri nelle norme costituzionali[xv]: la piena e la buona occupazione, con i capitali che devono seguire i lavoratori dove vivono e non viceversa come chiedeva il Beveridge, tradotto in Italia dal suo amico Baffi[xvi], arrivando a prefigurare lo «Stato come occupatore di ultima istanza»; la critica costante alle «non politiche per il lavoro»; la denuncia delle speculazioni finanziarie e dell’esproprio del risparmio; la denuncia degli «incappucciati della finanza», della evasione ed elusione fiscale; la richiesta della programmazione democratica e dell’impegno del credito in coerenza con questa, perché «la moneta ha senso se si traduce in reddito e questo in spesa e questa in nuova produzione», secondo la visione keynesiana, e perché il «credito ha un compito non solo tecnico ma civile da svolgere ai fini dell’attenuazione delle sperequazioni distributive e dell’eliminazione delle zone troppe ampie di emarginazione sociale, se saprà sfuggire alle manipolazioni fnanziario-speculative … se – in breve – saprà operare nel convincimento che il capitale rappresenta “un impegno a produrre”»[xvii]; la richiesta dell’intervento dello Stato a garanzia che la libera iniziativa non contrasti con l’ «interesse generale»; la difesa della democrazia economica; la difesa della libertà e correttezza dell’informazione economica; la difesa dei beni comuni dati in gestione anche ad associazioni di utenti; soprattutto la difesa strenua del welfare state; valorizzazione della cooperazione, del non profit e del volontariato, anche con riferimento ad un’opera del Beveridge[xviii], valorizzati anche da una recente sentenza della Corte Costituzionale.

Alla progressiva rinuncia al programma di avanzamento civile e sociale della Costituzione, quell’ «apparente utopia dei nostri padri costituenti»[xix], ha corrisposto il progressivo isolamento del riformismo di Caffè: riprendere il suo pensiero, attualizzandolo, è anche uno dei modi migliori per rimettere in campo quel programma.

«Apparente utopia», in grado di «fornire una visione e alimentare una speranza» progettuale che è inutile cercare altrimenti[xx]. E alla quale dovrebbe essere informata e valutata ogni proposta economica e sociale[xxi].

Ma, come chiede Zagrebelsky, occorre partire «dal ripristino della più dimenticata delle norme costituzionali, l’art. 54 che, se ci pensiamo, è la norma fondamentale su cui tutto si regge (o tutto crolla)». Art. 54 che recita: «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore». E concludeva: «La prima riforma di cui abbiamo bisogno è il rinnovamento civile. La Costituzione senza di ciò, è solo un falso obiettivo»21.

Anche su questo, Federico Caffè ci ha fornito una lezione di vita e professionale esemplari.

*Fondazione Giacomo Matteotti


Tratto da:
http://temi.repubblica.it/micromega-online/federico-caffe-modello-sviluppo/

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