I datori di lavoro gradiscono un’economia depressa?

di Marco Cattaneo

La domanda se la pone Paul Krugman ed è purtroppo molto attuale.
E’ utile innanzi tutto precisare che cos’è una recessione e che cos’è una depressione economica.

OK, c’è la battuta attribuita a Ronald Reagan (ma penso l’avesse copiata da qualcun altro):
“recessione è quando il mio vicino di casa perde il lavoro, depressione è quando lo perdo io”.

Volendo però essere leggermente più tecnici…
Una recessione è una fase di temporaneo declino dell’economia di un paese.
Il declino può essere misurato sulla base di vari parametri, e le due alternative più comuni sono il PIL e l’occupazione.

Attualmente l’andamento dell’economia è così sconfortante che basta un trimestre in cui il PIL reale ha una variazione del più zero virgola qualcosa, o anche dello zero spaccato, perché si senta dire che “la recessione è finita”.
Più propriamente, però, si parla di espansione e di recessione con riferimento all’occupazione. Quando il PIL reale cresce abbastanza rapidamente per ridurre la disoccupazione si parla di espansione, altrimenti di recessione.

Per non essere in recessione dal punto di vista dell’occupazione non basta quindi un più zero virgola qualcosa. Occorre una crescita che assorba l’incremento della forza lavoro tenuto conto anche della crescita demografica, dell’incremento del capitale industriale e dei miglioramenti della produttività (dovuti soprattutto alla tecnologia).

Fino agli anni Ottanta questo richiedeva che il PIL reale si espandesse a tassi medi annui intorno al 2,5-3%, oggi probabilmente basta l’1,5%-2%. Il che significa che il più zero virgola espande il PIL ma continua a produrre l’aumento della disoccupazione. L’Italia nella migliore delle ipotesi oggi è in questa situazione, quindi la recessione non è affatto finita (dal punto di vista dell’occupazione).

Ma ancora più importante, e più grave, è che tutte le economie occidentali – nel loro complesso – sono in depressione.
Depressione è quando l’economia cade in una situazione permanente di forte sottoutilizzo della sue capacità produttiva, quindi di disoccupazione alta e continua.

E’ la tipica situazione che si verifica dopo lo scoppio di una grande bolla speculativa: come avvenuto nel 1929 e nel 2008.
La crisi di fiducia e l’eccesso di indebitamento (privato, non pubblico) è tale che anche se le banche centrali portano i tassi sostanzialmente a zero, la domanda non riparte. Occorre un intervento dello stato per produrre un recupero della domanda sufficiente a risolvere la depressione.

[…]
Bene (si fa per dire). Torniamo a quanto dice Krugman. Molto semplicemente, nota in questo recente articolo che i datori di lavoro, le grandi aziende statunitensi, non sembrano animate da una gran fretta di mettere velocemente termine alla depressione. Anzi: “potete facilmente radunare una folta schiera di prestigiosi CEO per sottoscrivere un documento che chieda di “Sistemare il Debito Pubblico”; non combinate nulla se il messaggio è “Sistemare l’Economia”” (vale a dire l’occupazione).

Se tutto questo vi sembra illogico, cambierete idea dando un’occhiata ai dati su costo del lavoro e utili aziendali USA dal 2007 a oggi.

Quando la crisi è esplosa, a fine 2008, gli utili sono calati molto più delle retribuzioni. E più veloce è stato il recupero quando si è iniziato a risalire la china.

La remunerazione del capitale è più volatile di quella del lavoro, e questo è comprensibile. Il problema è un altro: oggi le retribuzioni USA sono più alte del 10% rispetto al 2007. Gli utili, del 60%.

In un’economia ancora depressa, con disoccupazione tuttora decisamente elevata, le aziende hanno beneficiato di una dinamica salariale molto contenuta. E il 60% di crescita degli utili in sei anni non è, diciamo, una cosa che faccia sentire i datori di lavoro particolarmente insoddisfatti.

Krugman nota che anche con un’economia che non sta viaggiando alla sua normale velocità di crociera, dal punto di vista delle aziende mantenere livelli di attività più bassi del potenziale è compensato dalla maggiore forza contrattuale con i dipendenti: quindi retribuzioni più basse. Completamente compensato ? difficile da dire, ma di sicuro le aziende non soffrono di grandi problemi per lo stato “moderatamente depresso” dell’economia.

Ma c’è dell’altro, e ancora una volta i grandi del passato hanno parecchio da insegnare. Basta leggere che cosa diceva nel 1942 Michal Kalecki, in un articolo (la trascrizione di una conferenza, in effetti) tutto da leggere e meditare, “Political Aspects of Full Employment”:

“Chiaramente, una maggior produzione e occupazione beneficia non solo i lavoratori ma anche gli imprenditori, in quando genera maggiori livelli di profitti”. Ma senza nemmeno toccare il punto dei minori costi di lavoro che compensano gli effetti sugli utili di un’attività (moderatamente) depressa, ci sono altri temi più politici che economici, che spingono gli imprenditori a non provare un grande entusiasmo per il pieno impiego. Kalecki li sintetizza così:

“L’attitudine negativa verso l’interferenza governativa in quanto tale, riguardo al problema dell’occupazione. L’attitudine negativa verso la direzione dell’intervento governativo (investimenti pubblici e sovvenzioni al consumo). L’attitudine negativa verso i cambiamenti politici e sociali derivanti dal mantenimento del pieno impiego”.

Pur notando che “una solida maggioranza di economisti è oggi del parere che, anche in un sistema capitalistico, il pieno impiego possa essere assicurato da un adeguato programma di spesa governativa”, Kalecki era meno ottimista di Keynes.
Che fosse possibile, era chiaro a entrambi. Che, avendo compreso come ottenere il pieno impiego, le classi dirigenti avrebbero agito in modo da mantenerlo in modo permanente, era un’altra questione.

Da cinque anni in qua, il mondo occidentale sta dando molte ragioni allo scetticismo di Kalecki, ben poche all’ottimismo di Keynes.

Specialmente in Europa.

Speriamo ancora per poco.

 

Pubblicato il 31.12.2013 sul blog

Basta con l’Eurocrisi

 

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