Vi racconto come il made in Italy sta morendo

di Costantino Rover

Vi racconto come il made in Italy sta morendo. Ma non da un paesino sperduto in mezzo alla brabagia (con tutto il rispetto) o da sotto le macerie lasciate a guardiane una landa isolata da un cataclisma (sempre con altrettanto rispetto). Ve lo raccontiamo dalla cabina di controllo di quella che una volta chiamavamo “locomotiva d’Italia”.

Da quel nord-est ammantato dal mito, ormai, più che dai fasti che ancora si narrano coma quando a Natale i nonni tramandavano ai nipotini leggende di tempi lontani.

Sotto un dito di polvere, i ricordi; ancora più sotto il vecchio cuore della piccola e nano impresa, colonna portante e vera dorsale economica del Paese.
Già, le famose e tanto deprecate micro imprese di cui tutti parlano, di solito male, senza avreci mai lavorato. A volte senza aver mai lavorato da nessuna parte.

Tra gli economisti italiani e loro fac-simile è molto in voga la teoria secondo la quale le micro imprese dovrebbero sparire perché arretrate e poco produttive.
Tanto per intenderci stiamo parlando del made in Italy migliore.
 
Al loro posto solo grandi e mega aziende, tipo la ex FIAT.
O magari chissà, forse sognano che Amazon diventi italiana (o si compri l’Italia).
Che onore!

Ecco come il made in Italy sta morendo

Mese di settembre 2020. È una azienda che produce alcuni importanti marchi italiani di alta moda. Cinquanta dipendenti circa. Sono tutti in cassa integrazione fuorché uno.

È il magazziniere che si aggira dentro al silenzio in cui solo i rumori del muletto che sta manovrando lo distraggono dai suoi pensieri fatti di attonita contemplazione del baratro.

L’Italia non è che se ne stia andando; se n’è già andata. Da molti anni ormai.
Chi è rimasto sono gli italiani. Alcuni in gamba, gente niente male. Sono questi, che producono ancora valore reale, che stiamo salutando per l’ultima volta.

Dicevo del magazziniere.

Chissà forse ufficialmente in cassa integrazione: perché se no non si spiega cosa ci faccia in una azienda chiusa.
Gli altri quarantanove dipendenti sono incassa integrazione di sicuro.

Va avanti e indietro con la scusa di fare un po’ di ordine. Di cosa poi?
Forse si trova lì giusto perché a nessuno era mai venuto in mente di tenere un cane da guardia al cancello.
E adesso, a porte chiuse, chi avrebbe il tempo di portargli da mangiare?

Lui si divincola tra i corridoi del magazzino e porta a spasso la solitudine da uno scaffale all’altro, in cerca tutti e due di qualcosa da fare.


 

“Questa stagione produrranno solo il nostro marchio e un altro. Tutti gli altri brand non verranno prodotti, quindi non li troveremo nei negozi. Il nostro, se tutto va bene, perderà il 20%  del fatturato. Una manna di questi tempi, quando chi non ha chiuso i battenti sta registrando perdite del 30-40-50%.
Nel frattempo i marchi grandi e medi sono già sul mercato al prezzo di una pipa di tabacco. Se li stanno comprando gli stranieri al saldo del made in Italy che ancora sopravviveva prima del covid.

Il titolare dell’azienda ha sospeso tutte le altre linee di prodotto e messo tutti in cassa integrazione, fino a quando non gli passeremo i nostri disegni per fare la nostra linea (già molto ridotta rispetto al solito, per fare fronte alla crisi).
Allora qualcuno rientrerà per qualche settimana.

Così facendo ha potuto chiudere i fidi e disdettare le assicurazioni sulle spedizioni all’estreno.
Un bel risparmio che gli consentirà di chiudere il bilancio in pari. Lui. I dipendenti, chissà.”.

Questo lo scarno e lapidario riassunto di N. C., in pieno stile del veneto disilluso, abituato ad aspettarsi sempre di peggio anche nei giorni migliori, e quindi senza illusioni ma con tanto pelo sullo stomaco.
Anche lei, sempre in prima linea nel ramo dell’alta moda, da un paio di anni sente tirare un vento contrario.
Se lo sentono tutti da queste parti.
E non è più il vento in poppa o meglio, la brezza di ingresso dai finestrini di quella locomotiva lanciata a piena velocità degli anni ottanta e novanta.
Chi ci racconta il piccolo-grande spaccato di realtà, vero specchio della situazione reale, viene da ambienti che il mondo intero se li è messi negli armadi, già prima che Renzo Rosso, Mr. Diesel, rilevasse tutta la baracca.


Thiene (alto vicentino) ex-negozi in centro città. Il made in Italy sta morendo, ma l’economia è una catena fatta di anelli tutti attaccati tra loro.
Tu in quale anello della cetena ti trovi? Su gentile concessione di Flavio Vezzaro.

Cronache dall’alto vicentino, casa di Marzotto, Lanerossi e Diesel

Vicenza, mese di novembre 2020, Trissino è di strada per andare a Recoaro. In mezzo c’è Valdagno. Lì c’è nata la Marzotto, di cui oggi sono rimaste le vestigia di immensi centri di produzione che sembrano non finire mai, qualsiasi sia la dimensione verso cui si guarda. Da queste parti la Lanerossi inventò la coperta elettrica e fu la prima azienda al mondo a mettere il proprio logo sulla maglia di una squadra di calcio.
Insomma era gente che vedeva lontano.

Oggi a fare jeans e quasi tutto il resto, sono rimasti solo laboratori cinesi. È tutta gente che ha imparato il mestiere. Cioè glielo abbiamo insegnato noi.
Dev’essere cominciato quando qualcuno dei nostri ha visto nella Cina l’occasione di fare i soldi a basso rischio d’impresa.
Adesso ti raccontano tutti che la colpa è della globalizzazione, ma prima, dico prima della globalizzazione, ma anche prima del crollo del muro di Berlino, c’era chi aveva visto nelle scimmie gialle (per indicare il disprezzo sotteso) un bel gruzzolo.

Allora cosa abbiamo fatto? Siamo andati là, pensando che fossero tutti scemi, e gli abbiamo fatto prdurre il “made in Itali“. Agli scemi.
E siccome erano scemi, secondo noi, incapaci di andare oltre all’ordine imposto e alle istruzioni passo passo, gli abbiamo inseganto a copiare pedissequamente quello che prima facevamo fare ai nostri artigiani.
Abbiamo iniziato con piccoli dettagli di capi o di macchinari e poi abbiamo trasferito in Cina tutta la produzione e, casomai, i dettagli li abbiamo tenuti per i nostri artigiani. Quelli utili; perché quelli in esubero li abbiamo mandati a spasso.
Ma siccome i cinesi non sono scemi, se mai fanno finta, magari non avranno creatività, ma sono svegli come grilli e hanno fame di riscatto e poi sono in tanti, e oggi il made in Itali lo sanno fare bene.
Anzi, hanno colonizzato tutte le Marche, il Veneto e la Toscana, quindi fanno made in Italy, quello vero. Perché risiedono qui. E guai se se ne dovessero andare!

Se il made in Italy sta morendo è anche per questo. Ma non è il solo regalo che ci viene dalla Cina.


Dal made in Itali al made in Italy, cinesi alla conquista

Lavorano sempre come macchine. Ma basta che gli metti alle calcagna uno sempre con il fucile puntato e vedi come producono. Perfetti.
Magari ti fanno impazzire, perché sanno solo ricopiare. Passano sopra a tutto, andando dritto per dritto anche sopra a un errore che un italiano vedrebbe o di fronte al quale si farebbe venire il dubbio, e poi correggerebbe mentre la produzione è lanciata e bisogna trovare soluzioni spicce.
Invece il cinese tira dritto filato come un fuso e poi se c’era l’errore di progettazione, sono cazzi tuoi.

Ma vuoi mettere che risparmio ad assumere solo il tizio che imbraccia il fucile, invece interi reparti di maestranze da pagare perché rare e con le contro palle?

“Circa un anno fa abbiamo incominciato a creare un nuovo brand di abbigliamento competamante made in Italy. L’idea si basa sullo studio di una nicchia di pubblico di cui noi stessi facciamo parte degli appassionati di certi balli di coppia. Anche noi ci siamo fatti trascinare e poi ispirare dal periodo tra gli anni Venti e Quaranta – come loro – e da quel vintage che piace tanto al nostro pubblico.

Siamo riusciti a ricreare uno stile che era andato completamente dimenticato e crediamo di aver colmato una grande lacuna del mercato.
Prima i veri appassionati dovevano procacciarsi il necessario per l’outfit nei mercatini dell’usato, se avevano la fortuna di trovare il capo giusto della loro taglia e come piaceva a loro. Oggi il nostro brand è in grado di offrire capi in stile con l’epoca e che riportano alla luce tutta una cultura che deriva dai bassifondi newyorkesi.
Quello che nel gergo del marketing è il nostro buyer persona si trova proprio lì in mezzo. Ce lo abbiamo! Ne abbiamo individuato i gusti, lo stile e ne abbiamo tracciato un profilo ritagliato sui nostri capi e vice versa.

Abbiamo costruito un solido business plan, ma non per chiere prestiti alle banche. Qui in Veneto le banche più stanno alla larga dal business e dai risparmi delle famiglie e più siamo contenti. Nel nostro lavoro di ricerca abbiamo raccolto talmente tanti elementi che possiamo ritenerci piuttosto sicuri che il prodotto funzionerà. Abbiamo condotto anche delle piccole ricerche di mercato e fatto i nostri test.
Siamo persino stati selezionati dall’organizzazione del più grande evento nazionale del settore, che richiama all’adunata ogni anno decine di migliaia di appassionati di lindy hop, boogie-woogie, ecc. di tutto il mondo. I nostri buyer personas appunto.
E siamo stati selezionati sulla base di un mini campionario e di tutto il lavoro svolto per raccontare il nostro progetto. Tutto qui. Senza aver prodotto un singolo capo.
Come abbiamo fatto? Con un po’ di mestiere. Abbiamo saputo racontare la nostra idea e lasciato che l’immaginazione dei nostri contatti facesse il resto.

Fino ad allora avevamo costruito il campionario affidandoci ad un piccolo studio italiano che si occupa della prototipazione di capi campione che si trova nell’alto vicentino.


Un anno per trovare un laboratorio italiano nella terra di Marzotto, Lanerossi e Diesel

Ci abbiamo impiegato quasi un anno a trovare un laboratorio italiano con manodopera artigiana italiana che ci desse una mano a realizzare la collezione vera e propria.
È l’unico rimasto in zona. Sono brave persone che si sono fatte in quattro per riuscire a consegnare quelle che noi chiamiamo, le nostre creazioni.
Esperti di jeans, hanno dovuto faticare molto per riuscire in ciò che gli chiedevamo: dedizione, precisione e soprattutto di uscire dal loro guscio tecnico-culturale e di immergersi nel nostro mood risalente a cento anni fa.
Non proprio una cosuccia. E gliene siamo grati.

Abbiamo selezionato tessuti che fossero all’altezza. La maggior parte provengono da vecchie botteghe dimenticate nei paesini della provincia. Anche questa tutta roba italiana. L’unica eccezione la fa il denim e due tipi di cotone, giapponesi. Insomma abbiamo puntato sulla qualità

Così oggi abbiamo la nostra prima collezione e sono tutti capi 100% made in Italy, fatti da maestranze completamente italiane: abbiamo raggiunto un traguardo perseguito con testardaggine al prezzo di ripetuti rinvii.
Persino i nostri bottoni sono prodotti in Italia. Abbiamo costruito la nostra piccola collezione da portare agli eventi.
E siamo orgogliosi del piccolo contributo che stiamo tentando di dare all’economia locale.

Oggi siamo molto soddisfatti ma siamo stretti da due incognite veramente enormi.
La prima riguarda quando gli appassionati potranno tornare a incontrarsi in gran numero. Qui le scuole di ballo stanno chiudendo tutte, ci sono famiglie che rischiano di finire in mezzo alla strada e anche con strascichi pesanti. Qualcuno aveva in piedi un mutuo con il quale si stava comprando lo spazio in cui aveva realizzato il sogno di aprire la propria scuola.

Il tessuto delle relazioni, un tempo molto strette, sta morendo.

Il nostro progetto prevede di costruire la nostra reputazione sul campo, non ingrassando l’azienda di Mark Zuckerbergh. Perché quando sei uno sconosciuto, il pubblico, se sa riconoscere la qualità ed il valore di ciò che acquista, vuole toccare con mano cosa sei in grado di fare.
Qui il social media marketing non funziona. Tanto meno allo stadio in cui siamo ora.

Anche sui social camminiamo a regime impostato sul minimo per non bruciarci le carte fin tanto che siamo sconosciuti.


Non ci resta che rinviare, ma cosa resterà per lavorare?

Abbiamo rimandato l’apertura del nostro negozio online. Per il momento ci appoggiamo ad un portale esterno, giusto per far vedere che il prodotto è acquistabile.
Sui social abbiamo impostato il regime al minimo per non bruciarci gli argomenti prima che la gente possa conoscerci. Stiamo tentando di dare un indirizzo alla comunicazione sapendo che il prodotto, la gente che non può incontrarsi, non lo acquisterà mai.

Non sappiamo cosa rimarrà di tutto quel movimento che si era costruito negli anni.
Stanno ammazzando tutto con il terrorismo, che sembra fatto solo a beneficio di chi vende pubblicità sui quotidiani online.

La seconda incognita riguarda il laboratorio che ci ha accompagnato fino alla realizzazione della collezione. Durante questi mesi si è retto in piedi solo grazie al nostro ordine. Senza sarebbe rimasto chiuso ed i dipendenti sarebbero rimasti tutto il tempo in cassa integrazione.
Stiamo parlando di pochi capi, per carità. Siamo una start-up. Ma tant’è.

Non è facile sentire la titolare chiederti ogni volta che la incontri per discutere della collezione: “se sentì coalche d’un che ga bisogno, disimelo, che qua no ghe xe laoro…” Tutte le volte con dei puntini di sospensione che non lasciano presagire niente di buono.
Mi si stringe il cuore.
Non possiamo permetterci di perdere questa opportunità. Vorremmo poter continuare a crescere assieme a loro.
E non volgiamo essere costretti a fare made in Itali. Non ci interessa.”.

(fonte)

Questo il racconto di C. R..


Le ripercussioni a catena sull’economia reale

Il made in Italy sta morendo. È il classico tirannosauro nel salotto. Ve lo abbiamo fatto notare nel precedente articolo dal titolo: Andrà tutto bene” . Forse non tutti quelli che l’hanno letto se ne sono accorti, ma il messagio era piuttosto diretto, per quanto edulcorato nei toni.
In quell’articolo troviamo previsioni piuttosto azzeccate e con qualche mese di anticipo sui giorni d’oggi.

Abbiamo creduto che a proteggerci ci sarebbe stato Dio, ma il Papa ha alzato le mani e ci ha detto di metterci nelle mani del Governo.
Quello ci ha raccontato le favole della serie potenza di fuoco e allora siamo dovuti andare col piattino in mano in Europa.
E questi cosa c’hanno risposto?  “Volete i soldi? Tagliatevi prima i servizi pubblici.”

Giusto! Giustissimo.

Cos’altro dovrebbe spettare ad un popolo abbarbicato sui balconi di casa con l’unica reazione di cui sono capaci: accendere caldeline votive (ma se vi hanno già detto che Dio ha altro a cui pensare…) e fare flashmob intonando canzoncine popolari?


Di cosa si sono occupati gli italiani in questi anni e in questi mesi
abboccando alle esche lanciate dei loro politici e dai mass media?

 Ma la realtà non si scorda di noi anche quando ci comportiamo come bambini che aspettano che arrivi il supereroe a salvarli, standosene su Netflix e facendo finta che il problema si risolverà da solo.
Quanti ne sono rimasti di quei lenzuoli tinti con i colori dell’arcobaleno?
E mentre la realtà era lì, in groppa al T-rex in salotto, che cosa hanno avuto a cuore gli italiani negli ultimi anni e negli ultimi mesi?

Accoglienza, fascismo, diritti LGBT, taglio dei parlamentari, matrimoni gay, stepchild adoption, Salvini, olio di palma, Trump, black lives matters, famiglia tradizionale vs. famiglia arcobaleno, la kasta, Greta, lotta al contante, Putin, Lukashenko, via della seta, TAV, 5G, diritti civili, bonus monopattino, ripresa del campionato di calcio, calo delle borse, potenza di fuoco, potenza di fuoco, banchi di scuola a rotelle, ONG, parità di genere, candeline e flashmob anti covid, gente che andava a correre, friday for future, ecc..

In quanti si sono occupati di economia? Del problema della finanza che governa al posto di quelli che abbiamo votato? Quanti stanno incalzando i politici sulle vere istanze che è necessario affrontare al più presto?


Tratto da:
https://economiaspiegatafacile.it/2020/10/12/vi-racconto-come-il-made-in-italy-sta-morendo/

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