Quando l’Italia portò l’orrore in Etiopia

di Alberto Quattrocolo
02.10.2018

Mussolini voleva l’Etiopia per dare agli italiani «un posto al sole», della terra e un impero coloniale

Benito Mussolini aveva promesso agli italiani «un posto al sole». Aveva promesso un impero. E alle masse dei braccianti, dei senza lavoro, dei contadini che faticavano a sfamarsi aveva promesso terra buona e in abbondanza da coltivare.

Le potenze europee, tutte, avevano colonie in Africa. E, secondo Mussolini, era ingiusto che l’Italia, soprattutto l’Italia fascista, non possedesse un impero coloniale degno di questo nome. Ce l’avevano la Francia e la Gran Bretagna. Non il Regno d’Italia. E lo disse chiaramente Benito Mussolini, arringando una folla oceanica , il 2 ottobre del 1935, tre giorni prima dell’invasione dell’Abissinia. Alla fine della guerra (la Prima Guerra Mondiale), disse, all’Italia, sebbene vittoriosa, «attorno al tavolo della pace esosa non toccarono che scarse briciole del ricco coloniale».

In realtà, l’Italia aveva già la Somalia, l’Eritrea, che era stata una regione dell’Impero Etiope, e aveva la Libia. Ma quelle possedute dall’Italia in Africa erano terre aride, desertiche. Mentre l’Etiopia aveva zolle più fertili.

Per Mussolini, quelle terre africane che erano già in mano agli italiani non bastavano a fare diventare il Regno d’Italia un impero. Occorreva uno spazio più ampio, illimitato, adeguato per chi si sentiva stretto nei confini della penisola.

 

Il mito imperiale e l’ossessione per le «razze che minacciano la civiltà dell’uomo bianco»

L’Etiopia, oltre ad avere un suolo più fertile, era abbastanza vasta ed era “libera”. Cioè, vi abitavano gli etiopi ed era, insieme alla Liberia, l’unica nazione dell’intero continente africano a non essere stata sottomessa dalle potenze coloniali europee.

Le forze armate italiane, dunque, avrebbero potuto invaderla e sottrarre quelle terre ai loro abitanti, ma senza scontrarsi con le truppe di altre nazioni europee, senza rischiare, quindi, un conflitto incontenibile e insostenibile, oltreché perso in partenza. La conquista dell’Etiopia era l’ideale anche per chi aveva sete di avventure in luoghi esotici. Avventure, però, che non fossero troppe pericolose, dato che si trattava di scontrarsi con un avversario che aveva mezzi, armi ed equipaggiamenti incomparabili con quelli nostrani.

Non vi erano solo ragioni legate alla propaganda, a logiche di politica interna o ad una sorta di individuale e collettivo complesso di inferiorità  – che portava al perseguimento narcisistico, da parte del capo e dei suoi accoliti e fedeli, di un status grandioso e glorioso, riconducibile all’apogeo dell’impero romano.

Vi erano anche altre ragioni: Mussolini, convinto com’era che «il numero è potenza» e, quindi, ossessionato dalla paura per le «culle vuote», temeva che le «razze gialle e nere», aumentando in «numero ed espansione», arrivassero a minacciare, a soffocare perfino, «la civiltà dell’uomo bianco». Era fermamente convinto che «per l’Italia, come per gli altri Paesi abitati da popoli di razza bianca», si trattasse di «una questione di vita o di morte».

 

L’Italia ci aveva già provato in Etiopia

L’Etiopia, che aveva respinto anche gli eserciti arabi e turchi, era in amichevoli relazioni con diversi paesi europei.

Non che non ci avessero provato degli europei ad invaderla, a colonizzarla, a “civilizzarla”. Ci avevano provato gli italiani, per la precisione. Circa quarant’anni prima che Mussolini le piombasse addosso, ma gli italiani erano riusciti a prendersi soltanto l’Eritrea.

Dal 1923 l’Etiopia era divenuta membro della Società delle Nazioni. Nel 1930, il reggente ras Tafarì Maconnèn, che aveva ottenuto quell’importante risultato politico-diplomatico, era stato incoronato imperatore col nome di Hailé Selassié e aveva proseguito l’opera di modernizzazione avviata in precedenza.

 

Il lungo inganno e l’attacco “more nipponico” del 3 ottobre 1935

Nel 1928 il governo di Mussolini aveva firmato con quello di Hailé Selassié un trattato ventennale di amicizia. Dal punto di vista italiano quel trattato non valeva la carta su cui era scritto, tanto che immediatamente il governo fascista autorizzava operazioni di spionaggio e sovversione in territorio etiope [6]. E preparava dei piani per l’invasione [7]

Nel 1934, quindi, era quasi tutto pronto. Incluso un certo non irrilevante entusiasmo o, almeno un consenso crescente, del popolo italiano, che era stato opportunamente martellato con sistematicità da una propaganda, esplicita e implicita, tesa ad infervorarlo per l’avventura, per la conquista, imminente.

Mancava solo un dettaglio, piccolo, ma importante: una scusa. Un argomento da proporre al popolo e all’estero come giustificazione per l’aggressione ad uno stato sovrano, membro per giunta della Società delle Nazioni.

L’incidente di Ual Ual del 5 dicembre del ’34 fu provvidenziale[8]. Si trattava di una di quelle vicende che si sarebbero potute tranquillamente comporre. Ma per Mussolini si trattava del casus belli perfetto. Il 27 dicembre ordinava, quindi, la mobilitazione parziale delle truppe in Eritrea, dove tre giorni prima aveva inviato De Bono, e quella totale in Somalia.

In effetti, già dall’inizio del 1935 il Duce, che aveva deciso di seguire di persona l’impresa etiope, aveva costruito una formidabile macchina da guerra, inviando fino a settembre 498 navi cariche di 4278 automezzi militari, 24500 quadrupedi e quasi 180 mila soldati equipaggiati di tutto punto. Mentre dai porti italiani partivano per l’Eritrea e la Somalia centinaia di cannoni, carri armati, aerei e mitragliatrici, su richiesta dell’Etiopia la Società delle Nazioni costituiva una commissione di arbitrato per dirimere la controversia con l’Italia.

Dieci mesi dopo Ual Ual, tutto era davvero pronto. Il 3 ottobre 1935 iniziò l’attacco, che non fu proceduto da alcuna dichiarazione di guerra.

 

L’inefficacia delle sanzioni della Società delle Nazioni. Anzi: la loro efficacia come strumento di propaganda interna

L’Italia, dunque, fu denunciata dalla Società delle Nazioni il 6 ottobre 1935 e condannata il 10 dello stesso mese. La condanna consistette nell’adozione, secondo lo Statuto della Società delle Nazioni, di sanzioni economiche: l’embargo su armi e munizioni, la proibizione di concedere prestiti e crediti, il divieto di esportare merci italiane e di importare prodotti per l’industria di guerra.

Le sanzioni, però, nella pratica, non furono affatto tali. La Gran Bretagna lasciò che nel canale di Suez passassero le navi italiane che portavano armi, mezzi e uomini da impiegare contro l’Etiopia, Né, del resto, l’economia italiana accusò il colpo, visto che le sanzioni non riguardavano l’importazione di materie come petrolio, carbone e acciaio di cui aveva principalmente bisogno.

La propaganda del regime, naturalmente, non si fece trovare impreparata. Anzi, le sanzioni furono sfruttate abilmente sulla stampa, alla radio, nei comizi, ecc., per consolidare l’appoggio popolare al regime e alla sua impresa etiope e far apparire l’Italia fascista come vittima anziché come aggressore. Vittime delle «inique sanzioni» imposte dalle «ricche e soddisfatte» nazioni europee.

 

L’Etiopia stava per entrare nell’Orrore.

«La conquista della terra, – ha scritto Joseph Conrad in Cuore di tenebra – che più che altro significa toglierla a chi ha un diverso colore della pelle e il naso un po’ più schiacciato del nostro, non è una bella cosa a guardarla, a guardarla da vicino».

Anche a guardarla dalla distanza di 83 anni, l’occupazione dell’Etiopia da parte dell’Italia non è stata davvero una bella cosa. Non esiste, in effetti, alcuna “impresa coloniale” che non sia stata soltanto o soprattutto, per citare ancora le parole di Joseph Conrad, «pura e semplice rapina armata, omicidio aggravato su vasta scala». Ciò che fecero gli italiani agli etiopi, però, fu anche peggio.

Non soltanto le truppe italiane portarono un uragano di fuoco contro l’esercito etiope, decisamente meno armato e peggio equipaggiato, e contro la popolazione civile, impegnando senza risparmio l’artiglieria, i bombardamenti e i mitragliamenti aerei, ma commisero una serie infinita di crimini contro l’umanità.

Dall’uso dei gas tossici, già da dieci anni proibiti dalla Convenzione di Ginevra, alla distruzione di paesi e villaggi, dall’impiccagione ad altre forme di esecuzione sommaria, dalle rappresaglie alle razzie, nessuna forma di atrocità fu risparmiata al popolo etiope dall’invasore italiano.

Era una guerra di sterminio. Mussolini autorizzava l’uso dei gas tossici sulla popolazione inerme, sul bestiame e sui campi, per farli morire di fame, oltreché asfissiati e ustionati;ordinava di non rispettare i contrassegni della Croce Rossa, consentendo la distruzione di 17 installazioni mediche.

Il Capo del governo, inoltre, autorizzava l’uso di truppe islamiche provenienti dalla Libia – più che inclini a far pagare ad un popolo di religione cristiana (copta), i soprusi patiti in passato dai battaglioni amhara-eritrei, impiegati sempre dagli italiani nell’occupazione della Libia – contando sulla ferocia insista in una guerra di religione.

 

Oh, che bel massacro!

Non furono, però, soltanto MussoliniGrazianiBadoglio e gli alti ufficiali a spargere, vigliaccamente, atrocità e morte sul popolo abissino. I loro ordini furono eseguiti alla lettera da tutta la scala gerarchica, giù fino all’ultimo soldato semplice. E non con diffusa riluttanza.

Basta leggere le pagine scritte da Indro Montanelli, nel suo XX Battaglione eritreo, o quelle di Alessandro Pavolini, in Disperata,  oppure il Quaderno africano di Giuseppe Bottai o Voli sulle ambe di Vittorio Mussolini: non è che emergano, ma sono esplicitati, il più viscerale disprezzo per gli etiopi e l’assenza totale di pietà verso di essi come vittime di violenze e crudeltà, ma proprio  il gusto di ammazzarli, come se il razzismo andasse a braccetto con la propensione per lo sterminio.

Pavolini, ad esempio, che esaltava le gesta della 15° squadriglia di aerei da bombardamento Disperata, sganciava l’iprite sulle forze etiopi, per evitare che sfuggissero al massacro delle armi e dell’artiglieria, non sdegnando di ammazzare anche i contadini che si trovavano nei paraggi. Vittorio Mussolini descriveva la caccia all’uomo, condotta dal cielo, e poi il suo mitragliamento, così come l’incendio dei villaggi e dei campi, sempre con il suo amato velivolo, come «un lavoro divertentissimo». Bottai, non proprio un giovanetto, essendo un quarantenne che aveva già ricoperto la carica di Ministro delle Corporazioni nel governo Mussolini, nel raccontare le sue imprese di distruzione di interi paesi osservava che «i cadaveri di gente nera non commuovono», mentre le macerie delle case sventrate «non stringono il cuore, non fanno nessuna pena». Montanelli, dopo aver descritto l’attacco ad un villaggio etiopico esitato in 67 morti ammazzati e in una razzia degna dei peggiori banditi, concludeva:

«Questa guerra è per noi come una bella e lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di 13 anni di scuola. E, detto fra noi, era ora».

Il Gran Babbo cui andava la gratitudine scherzosa di Montanelli era Benito Mussolini.

Parlando dell’attività degli agenti della stazione belga per il traffico di avorio nel Congo, Marlow, il protagonista-narratore di Cuore di tenebra, osservava: «I loro discorsi comunque erano discorsi di sordidi pirati, avventati senza ardimento, avidi senza audacia e crudeli senza coraggio».


Tratto da:
http://www.me-dia-re.it/quando-litalia-porto-lorrore-in-etiopia/

Lascia un commento