Le riforme economiche di De Gasperi

Condividiamo un articolo che riassume i tratti salienti dell’azione politica di Alcide De Gasperi, tratto dal blog
https://www.storiaeconomica.com/storia-economica/de-gasperi-tra-riforme-e-guerra-fredda

Per completare la panoramica sull’azione politica di De Gasperi condividiamo inoltre un articolo di Pasquale Hamel, tratto dal blog
https://www.glistatigenerali.com/storia-cultura/de-gasperi-e-le-origini-dellintervento-pubblico-nelleconomia/

Da parte nostra evidenziamo il coraggio e l’abilità nel muoversi con una buona autonomia fra i vincoli posti dalla situazione politica interna ed internazionale. Anni luce dai governi italiani degli ultimi 25 anni che sono andati avanti con il “pilota automatico” della NATO e dell’Unione Europea.


De Gasperi tra riforme e guerra fredda

De Gasperi dovette guidare l’Italia in uno dei momenti più critici non solo per il paese, ma anche per il mondo intero. Il globo era ormai diviso in due blocchi a causa della guerra fredda.
Nel 1948 alcuni paesi europei (Gran Bretagna, Francia, Belgio, Lussemburgo e Olanda) cercavano di dare vita ad un’alleanza difensiva, la cosiddetta Unione Occidentale.
L’Italia era stata invitata ad aderire, ma De Gasperi declinò l’offerta, motivando il rifiuto con la mancanza di un’assemblea parlamentare che potesse prendere una tale decisione; la Costituente era infatti stata sciolta e si sarebbero dovute tenere nuove votazioni per eleggere il parlamento. Tuttavia nella scelta dello statista italiano pesarono anche altre motivazioni: le sinistre avrebbero potuto accusare l’Unione Occidentale di essere una sorta di “alleanza fascista”, poi c’erano forti posizioni neutraliste all’interno della DC stessa; infine conosceva il risentimento dell’opinione pubblica nei confronti dei paesi che erano considerati i principali responsabili delle durissime condizioni di pace inflitte all’Italia, ovvero Francia e Gran Bretagna.

 

De Gasperi confidava di poter compensare la rinuncia all’adesione con un accordo bilaterale con gli USA.

Purtroppo, dopo le elezioni del 18 aprile 1948, l’Italia rischiò di rimanere isolata: la politica del governo americano era contraria allo stipulare accordi bilaterali. Così a settembre, durante le discussioni tra Unione occidentale, USA e Canada per la nascita del Patto Atlantico, l’Italia rischiò di rimanere tagliata fuori.

De Gasperi mise allora in opera una delicata e perseverante azione diplomatica, sostenuto dall’ambasciatore Tarchiani e da Sforza, per essere ammessi al Patto.
Diffidenze e contrasti erano all’ordine del giorno. Ma lo sforzo non fu vano: grazie anche all’appoggio della Francia, che aveva interesse a spostare la linea di difesa più ad Est, fu dato il via libera.
Il 4 aprile 1949 fu firmato nella capitale statunitense il Patto Atlantico. L’Italia poteva ora tirare un sospiro di sollievo, la garanzia militare era ora concreta; ma, ancora più importante, veniva riammessa a pieno titolo nel consesso delle nazioni.

Risolta tale questione, De Gasperi poté dedicarsi più a fondo alle riforme; anche queste riservavano parecchie difficoltà.

Dall’interno della DC, in particolare da Dossetti, provenivano le accuse al Presidente del Consiglio di essere troppo filo-americano, e di tenere una linea economica liberista che aggravava la disoccupazione.

A suscitare molte polemiche era in particolare la linea del Ministro del Tesoro Pella: egli stava proseguendo la dura politica, cominciata da Einaudi, tesa al mantenimento della stabilità della lira e del pareggio di bilancio.

Il percorso di governo si fece sempre più travagliato. A creare particolari contrasti era la riforma agraria, tanto necessaria per l’Italia (sopratutto per il mezzogiorno). Così nel gennaio 1950, in seguito a a dissensi con ministri liberali, De Gasperi si dimise; l’intento era di favorire la formazione di una maggioranza a forte spinta riformatrice in campo economico e sociale.

Nel programma da attuare vi dovevano essere anche alcuni punti di impronta dossettiana: interventi nelle aree maggiormente depresse, la riforma agraria e il raggiungimento della piena occupazione. Da aggiungere a queste vi erano poi riforme tributarie, giudiziarie, amministrative e scolastiche.

Le riforme non si potevano più rimandare, la situazione sociale era sempre più critica.

Le sinistre, dopo la sconfitta elettorale, spostarono la lotta dal livello parlamentare a quello socio-sindacale. Scioperi e manifestazioni, grazie anche all’appoggio della CGIL, erano ordinaria amministrazione.

Spesso le forze dell’ordine dovettero intervenire con l’uso delle armi.

Il nuovo governo non perse quindi tempo nel varare riforme economiche e sociali di notevole importanza.

Il ministro dell’agricoltura, Antonio Segni, predispose una riforma agraria che fu approvata solo parzialmente. Si vararono così la legge Sila (dal nome della omonima zona calabrese), e la legge stralcio, che era la prima fase di un progetto più elaborato.

A sussidio di questi interventi ci fu una riforma agraria promossa dall’Assemblea Regionale siciliana per l’isola. I cambiamenti consistevano, con procedure diverse a seconda della zona, nell’espropriazione di terreni incolti o mal coltivati per 700.000 ettari, con un indennizzo a prezzo di mercato per i proprietari; tali terreni venivano successivamente assegnati in unità di circa 10 ettari a famiglie contadine che avrebbero pagato i terreni nell’arco di 30 anni, divenendo poi proprietari del fondo.

L’obbiettivo della riforma agraria andava in due direzioni: favorire la creazione di una classe di piccoli proprietari terrieri che non fosse soggetta alle ali estreme della politica, e che aumentasse la produzione agricola del paese.

La riforma, seppur non raggiunse a pieno gli scopi preposti, fu l’intervento più incisivo dello Stato mai fatto in tale campo.

Segni preparò anche disegni di legge sulla ricerca, estrazione e trasporto degli idrocarburi; uno di questi progetti prevedeva la nascita di un ente statale con il monopolio delle ricerche petrolifere in val padana. Così fu creata l’ENI (1953) sotto l’amministrazione di Enrico Mattei, che avrebbe dato un enorme contributo allo sviluppo economico italiano.

Nel 1950 nacque la Casa per il Mezzogiorno, che avrebbe dovuto favorire lo sviluppo del sud Italia, attraverso investimenti per le infrastrutture: impianti per il commercio agricolo, acquedotti, strade, bonifiche. Ma la Cassa aveva la facoltà anche di concedere finanziamenti a privati.

Un altro risultato del governo fu la “legge Vanoni” (dal nome del Ministro delle Finanze), riforma in campo tributario, che favorì un più equo e moderno sistema di tassazione: introdusse la dichiarazione annuale dei redditi per le persone fisiche e giuridiche, nonché il principio di progressività fiscale delle imposte dirette (ridusse le aliquote ed esentò i redditi minori).

Questa operazione era fondata anche sull’idea del tributo come dovere sociale, per la solidarietà tra i cittadini; tra fisco e contribuente doveva instaurarsi, inoltre, un rapporto di fiducia.

Dal punto di vista finanziario la riforma fu un successo.

Altri interventi degni di nota furono l’istituzione dei cantieri di lavoro e la predisposizione di piani di rimboschimento per riassorbire parte della disoccupazione; infine il “Piano INA-casa”, chiamato anche piano Fanfani, che prevedeva la costruzione di 147.000 alloggi popolari entro 7 anni, finanziati con fondi statali e con contributi di datori di lavoro e lavoratori.

 


De Gasperi e le origini dell’intervento pubblico nell’economia
Seppure ci siano state esperienze significative anche in precedenza, la presenza pubblica nel sistema economico italiano si manifesta, in maniera evidente, con l’avvento del fascismo.
Nel 1933 viene, infatti, creato l’IRI (Istituto per la Ricostruzione industriale) con l’obiettivo di impedire il crollo del sistema creditizio italiano pesantemente colpito dalla crisi del 1929.
Le tre banche principali del sistema creditizio italiano – la Commerciale, Credito Italiano e il Banco di Roma –, pesantemente esposte, cedevano all’IRI le loro partecipazioni aziendali in cambio di quella liquidità senza la quale sarebbero fallite. Il salvataggio del sistema in qualche maniera giustificava quelle operazioni poco coerenti con un sistema di mercato. Per quanto riguarda l’IRI, doveva trattarsi di una istituzione temporanea da liquidare una volta che il sistema economico si fosse rimesso in moto.

Ma, come purtroppo troppo spesso accade in Italia, il precario si muta in stabile e anche l’IRI non sfuggì a questa regola. Nel 1937 il governo decise infatti di trasformarlo in ente pubblico permanente e lo spinse ad acquisire, anche per ragioni che avevano ben poco a che fare con la buona politica, quote azionarie di una buona fetta del patrimonio aziendale italiano.
Caduto il fascismo ne restava il lascito di un ente elefantiaco divenuto il controllore del maggior complesso finanziario, bancario e industriale del mondo occidentale. Un ente che, pare evidente, non aveva nulla a che fare con la scelta democratica-occidentale dell’Italia del dopoguerra.
Lo Stato imprenditore appariva, infatti, un’anomalia che la nuova classe dirigente avrebbe dovuto necessariamente correggere. Ma sulla strada della correzione,  che era osteggiata dalle fazioni stataliste, si trovò la forte opposizione di Alcide De Gasperi, il nuovo presidente del consiglio.

Un’opposizione, quella di De Gasperi, sulla quale Nico Perrone, autore de “La svolta occidentale” edito da Castelvecchi invita a riflettere soprattutto in relazione alle accuse di cui è stato fatto segno da parte delle sinistre per la sua scelta filoamericana.
La sinistra, soprattutto i comunisti e una parte dei socialisti, avevano accusato il presidente del consiglio di avere ceduto la sovranità nazionale agli americani dopo i suoi viaggi, quello del 1947 – del quale dicevano che fosse stato motivato soprattutto per concordare con Truman la cacciata dei comunisti dal governo – e quello, successivo, del 1951 dopo la firma del Patto Atlantico. Accuse che, alla luce dei documenti, risultano non corrispondenti alla realtà dei fatti, essendo stato il primo viaggio – come dimostra con ampia documentazione Giovanni Sale in un saggio su La Civiltà Cattolica – motivato dalla urgenza di ottenere crediti finanziari e aiuti alimentari, necessari visto l’esaurimento delle scorte in quel terribile frangente storico e, il secondo viaggio, per reclamare quella pari dignità sul piano internazionale che le potenze vincitrici stentavano a riconoscere. Come ricorda Perrone, condizione posta da Washington per concedere gli aiuti richiesti era la liquidazione dell’impalcatura statalista di cui, proprio l’IRI costituiva il pezzo forte.
Un presidente debole e, soprattutto, prone ai dettati della potenza americana si sarebbe dovuto comportare di conseguenza accettando quel diktat.

De Gasperi seppe invece resistere alle pressioni americane che trovavano sponda anche nei poteri economici forti presenti in Italia difendendo il sistema delle partecipazioni pubbliche. Lo statista trentino considerava infatti, al di là delle influenze o delle sollecitazioni che gli venivano da più parti, fondamentale e non negoziabile la prevalenza dell’interesse dello Stato nell’economia, andando nella direzione opposta a quello che gli Usa avrebbero voluto.
Egli, addirittura, allargò l’intervento pubblico nel comparto energetico, metano e petrolio, considerati settori strategici ai fini dello sviluppo del Paese, non opponendosi, anche per garantire la pace sociale e i livelli occupazionali, al salvataggio attraverso la statalizzazione di numerose imprese in crisi.

A De Gasperi va dunque direttamente ricondotta la responsabilità del consolidamento di quello “Stato imprenditore” la  cui estensione non trova riscontro nel mondo occidentale e che lo avvicina molto a quello delle economie socialiste. Sicuramente le finalità di De Gasperi, statista lucido e di grandi visioni prospettiche, furono nobili purtroppo, però, il risultato nel tempo non fu quello che si sarebbe aspettato: lo Stato imprenditore si mutò,  a partire dalla fine degli anni cinquanta, in una mostruosa macchina di scambio che ha inciso sulla moralizzazione dell’economia  e della politica.
Una situazione disastrosa, quest’ultima, che venne più volte denunciata dai diversi settori del mondo politico ed economico a cui, solo nel 1992, con il decreto sulle privatizzazioni, varato dal governo guidato da Giulio Andreotti, per ironia della sorte l’uomo che era stato più vicino a De Gasperi, si cercò finalmente di porre rimedio.

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