La UE partorisce un topolino verde. Quale differenza tra il piano energetico cinese e il Green New Deal europeo?

di Francesco Cappello

L’accordo verde europeo intende investire in un’economia climaticamente neutra e circolare

“Climaticamente neutra“ corrisponde all’adozione della logica del pareggio di bilancio (equilibrio tra entrate e uscite) applicata alle emissioni di gas serra da compensare con interventi miranti al loro riassorbimento artificiale e/o naturale in modo da giungere entro il prossimo trentennio ad una condizione di impatto climatico pari a zero (neutralità climatica).

Azzerare, dunque, le emissioni nette di gas a effetto serra in modo da ottenere zero impatto climatico. Bello no!? Ciò sarà possibile grazie all’adozione dei criteri propri dell’economia circolare che dovranno essere fatti propri da ogni Paese dell’Unione Europea investendo in soluzioni tecnologiche realistiche, armonizzando gli interventi in settori fondamentali, quali la politica industriale, la finanza o la ricerca e garantendo nel contempo equità sociale per una transizione giusta.

La neutralità climatica è presentata come urgente e necessaria nonché come un’opportunità per tutto il continente di contribuire ad un nuovo sviluppo tecnologico in grado di permettere lo sviluppo di nuovi mercati, aprendo la strada anche a nuovi settori occupazionali.

Il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis ha annunciato: «Vogliamo raggiungere emissioni zero entro il 2050. Non possiamo fallire. Il piano per gli investimenti sostenibili adottato oggi dalla Commissione europea punta a mobilitare almeno mille miliardi di investimenti nei prossimi dieci anni e invia un chiaro segnale a tutti: quando si fanno investimenti occorre pensare verde».

I costi economici in investimenti strutturali e contenimento dei costi sociali necessari all’ottenimento della transizione alla neutralità climatica saranno affrontati grazie al Fondo per una transizione equa – Just Transition Fund che ha stanziato i primi 7,5 miliardi di euro; grazie al cofinanziamento nazionale, al braccio finanziario InvestEu e alla Banca europea degli investimenti essi lieviteranno a 100 miliardi di euro.
Per Ursula Von der Leyen: Dobbiamo essere sicuri che nessuno rimanga indietro” perché  “questa transizione funzionerà per tutti e sarà giusta, o non funzionerà affatto.
Le fa eco la commissaria ai fondi di coesione Elisa Ferreira: «Tutti i paesi europei riceveranno un aiuto. L’allocazione dipenderà dall’intensità dei problemi ambientali». La quota spettante all’Italia pari all’incirca a quella di Francia e Spagna sarà pari a poco meno di 400 milioni di euro (dei 7,5 miliardi).

La lotta al riscaldamento climatico di cui la Ue aspira a farsi protagonista, unendo virtuosamente ambiente ed economia, rappresenterebbe l’occasione giusta per rilanciare la sua economia stagnante. La transizione climatica si otterrebbe anche grazie ad un riorientamento dei fondi di coesione, dallo sviluppo all’ambiente e a favore dell’occupazione che esclude qualsiasi sostegno alle fonti fossili, mentre sostiene la transizione verso un’economia libera da esse.

La condizione di emissioni zero, altrimenti detta di neutralità carbonica, consiste nel raggiungimento di un equilibrio tra emissioni ed assorbimento di carbonio (tra sorgenti e pozzi). Quando si rimuove anidride carbonica dall’atmosfera si parla di sequestro o immobilizzazione del carbonio. Le emissioni di gas serra, generate dall’uso di combustibili fossili, dovranno essere controbilanciate da un equivalente assorbimento di carbonio attraverso l’attivazione di sistemi per la sua cattura e fissazione in misura tale da compensare le emissioni o attraverso, ad esempio, la dismissione degli inceneritori o la produzione pulita dell’acciaio, ottenuta usando idrogeno, entro il 2030.
L’obiettivo è di ridurre le emissioni dei gas serra del 40% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 e giungere ad un’economia climaticamente neutra entro il 2050 attraverso il sostegno ad una agricoltura più sostenibile (strategia “Farm to Fork”), che riduca significativamente l’uso di pesticidi e concimi chimici, nonché quello degli antibiotici negli allevamenti finalizzati alla produzione animale, la riforma del sistema di scambio di quote di emissioni dell’UE emission trading scheme (ETS) che includa anche il settore dei trasporti (navi e aerei compresi) e delle costruzioni.
Secondo il commissario Gentiloni “Un sistema Ue di scambio delle quote di emissione più ambizioso, finalizzato a raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050, dovrebbe essere integrato da misure per evitare la rilocalizzazione delle emissioni di carbonio e garantire il vantaggio competitivo dell’Unione”.

Il governo italiano per sperare di aver accesso ai fondi a cui in ogni caso contribuisce con la sua quota di cofinanziamento dovrà presentare un piano per la transizione e sperare nella sua approvazione vincendo la competizione con gli altri paesi europei che aspirano alle stesse risorse. Se tutto andrà bene a questo livello, la competizione si sposterà tra le regioni italiane. Si sosterranno, infatti, finanziariamente solo quelle regioni in grado di impegnarsi nella decarbonizzazione delle loro economie presentando a loro volta piani territoriali finalizzati alla “giusta transizione“. Più direttamente interessate potrebbero essere aree quali Taranto, Gela, Milazzo, Augusta, Siracusa, Livorno così come quelle regioni ove insistono centrali a carbone come Brindisi, Civitavecchia, La Spezia, Monfalcone, Porto Torres, il Sulcis ecc. Rimane, dunque, aperta la domanda se saremo in grado di non sprecare le risorse disponibili e soprattutto se queste ultime saranno sufficienti ad una riconversione delle zone industriali inquinanti e alla loro successiva bonifica.

Si dice, però, che il Parlamento europeo avrebbe assunto una posizione ambiziosa per il nuovo Bilancio Europeo (NBE), anche rispetto alla proposta della Commissione europea, che dovrebbe integrare i finanziamenti al Green new Deal. Il Parlamento chiede che si aumenti il NBE all’1.3% del Prodotto Nazionale Lordo Ue (circa 180 miliardi…) perché le risorse siano finalmente adeguate alle sfide che l’Unione deve affrontare. Si spera così di rilanciare la crescita e gli investimenti e risollevare l’economia europea dalla stagnazione accelerando la sua transizione verso la sostenibilità che prevede l’abbandono del sostegno alle fonti fossili e investimenti in rinnovabili ed efficienza energetica.

Come funzionerà il fondo
Il fondo dovrà finanziare in modo socialmente equo la transizione dei paesi più inquinanti dell’Unione che dovranno presentare progetti infrastrutturali da sottoporre all’approvazione dell’esecutivo comunitario.
La transizione climatica sarà perseguita, attraverso una diversificazione delle attività economiche in grado di far rientrare l’inquinamento che affligge quelle sedi che necessitano di essere recuperate all’equilibrio climatico, segnate dall’industria pesante; operazione che dovrebbe generare nuova occupazione, anche attraverso adeguata formazione professionale.
La Commissione europea punta a mobilitare fino a 1.000 miliardi di euro per raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica. Se vi riuscisse si tratterebbe di una cifra pari a una media di circa un miliardo e 200 milioni a paese, all’anno, da oggi al 2050. Se l’Italia riuscisse ad ottenere tutta la cifra in questione essa corrisponderebbe per il nostro paese a 36 miliardi in 30 anni corrispondente a meno del 2% del PiL, il nostro reddito annuale nazionale. Le spese militari annuali italiane sono pari a più di 25 miliardi di euro.

Effetto leva finanziaria
Denaro privato e pubblico in sinergia che scommettono sull’effetto leva finanziaria. Dal bilancio comunitario 503 miliardi, 143 dal Fondo per una transizione equa, 279 da InvestEU più altri 114 dal co-finanziamento nazionale. In pratica fondi dal bilancio UE combinati con prestiti della Banca europea per gli investimenti e garanzie derivanti dagli altri strumenti di finanziamento.
Gentiloni chiede che si faccia un’eccezione accettando, udite udite, che gli aiuti di Stato, costantemente demonizzati, siano dichiarati leciti nel caso degli investimenti verdi; il commissario europeo si spinge addirittura a proporre lo scorporo della spesa verde dal calcolo del deficit. La proposta di modifica delle attuali regole di bilancio ha però trovato la pronta opposizione della presidente dell’esecutivo comunitario Ursula von der Leyen di forte osservanza ordoliberista.


Ventisette paesi su 28 aderiscono alla neutralità climatica ad eccezione della Polonia preoccupata dai costi della transizione
. I fondi previsti dal meccanismo di giusta transizione hanno, infatti, incoraggiato Ungheria e Repubblica Ceca, che si erano precedentemente mostrate restie, ad aderire grazie al sostegno finanziario ai settori più vulnerabili, coinvolti nel cambiamento. Gli aiuti essendo finalizzati ad attenuare l’impatto sociale nella transizione verso un’economia a zero emissioni.

Prevista la tassazione di quelle imprese estere che importano i propri prodotti nell’Unione da paesi dotati di leggi ambientali più permissive di quelle vigenti in Europa. Lo strumento fiscale avrà la forma di una carbon tax di frontiera, dazi verdi, che colpiranno in particolare la Cina già sottoposta al protezionismo statunitense. La Von der Leyen ha dichiarato che questa border tax sarà attivata nel 2021, nel rispetto delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, a partire da un “numero di settori selezionati” dimenticando che secondo gli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici, i paesi più ricchi dovrebbero assumersi maggiori responsabilità nella riduzione delle emissioni. Gentiloni è favorevole a introdurre un’imposta sul carbonio alle frontiere, che “dovrà essere accuratamente studiata per esercitare una pressione politica che spinga anche i più restii a prendere le misure necessarie, affinché le imprese dell’Ue possano competere in condizioni di parità e nel pieno rispetto delle norme dell’Organizzazione mondiale del commercio”.

In risposta, Zhao Yingmin, viceministro cinese per l’Ambiente, ha recentemente dichiarato che «bisogna impedire all’unilateralismo e al protezionismo di danneggiare le aspettative di crescita globale e la volontà dei paesi di combattere insieme i cambiamenti climatici».


Geopolitica, risorse e transizione energetica dal fossile alle rinnovabili. Il caso cinese

I maggiori fornitori di combustibili fossili della Cina sono il Venezuela, l’Iran e la Russia (VIR), che hanno le più grandi riserve al mondo di idrocarburi. La Cina, infatti, sul suo territorio dispone solo di carbone. La Cina, però, mentre utilizza a piene mani le risorse dei paesi VIR si prepara con un piano governativo per la transizione energetica alle rinnovabili che la renderà energeticamente autosufficiente entro il 2050, consentendole di produrre il 90% dell’elettricità mondiale da fonti rinnovabili. Il piano prevede investimenti per una cifra pari a 50 mila miliardi di dollari in 30 anni! Inutile sottolineare l’importanza di questo piano per i destini dell’umanità, non solo dal punto di vista dell’emancipazione dalle fonti fossili e del suo contributo agli equilibri ambientali, ma anche alla pace. Oggi, infatti, i paesi VIR, nel mirino Usa-Nato, subiscono punitivi embarghi tendenti a isolarli dal commercio mondiale. In particolare per Venezuela ed Iran tali sanzioni economiche mirano a suscitare il malcontento popolare a sua volta strumentalizzabile dall’esterno a fini di destabilizzazione politica.
Si consideri che la Cina ha un Pil di circa 14 trilioni di $ ormai prossimo a raggiungere quello dei paesi Ue.

La domanda che sorge spontanea è allora: come mai la Cina può permettersi di investire 50 volte di più dell’Unione europea nella transizione energetica che dovrà condurre l’umanità verso l’era postfossile?

La BCE col suo Quantitative easing ha messo in circolazione, a partire dal 2012, 3trilioni di moneta di banca centrale non per finanziare l’economia reale né per finanziare investimenti verdi ma per sostenere la ripresa del sistema finanziario (la city di Londra e le  banche private) e soccorrere, seppure indirettamente, i debiti pubblici dei paesi della zona euro messi in estrema difficoltà dalle politiche ordoliberiste e dalle ripercussioni della crisi finanziaria del 2007.

 

Per finanziare un progetto così giustamente urgente ed ambizioso come il New Deal verde su scala nazionale, avremmo bisogno di un meccanismo che non preveda né l’aumento delle tasse né la crescita di disavanzi e debiti pubblici. L’uso di moneta privata a debito, della quale siamo costretti a rifornirci sui mercati finanziari, ci impedisce di avere risorse sufficienti ed adeguate ad affrontare la transizione energetica in modo efficace senza peggiorare ulteriormente i nostri conti pubblici e la nostra condizione economica. Avremmo altresì bisogno di ricostruire una rete di banche pubbliche (le abbiamo svendute negli anni 90) in grado di valorizzare al meglio il risparmio italiano (4300 miliardi secondo BdI) in progetti di crescita verde e sostenibile. È proprio il fatto di aver rinunciato ad esercitare la nostra sovranità monetaria che ci impedisce di avere, ad esempio, un nostro piano energetico finalizzato alla transizione, concepito, discusso, migliorato e messo in opera nel nostro Paese costringendoci, oltretutto, a sperare nelle briciole che ci arriverebbero dai fondi europei secondo criteri e modalità che ci penalizzano pur essendo l’Italia da sempre contributore netto rispetto alle richieste di contribuzione che abbiamo sempre puntualmente onorato.

Una nuova fonte di denaro per investimenti, quindi, che non implichi imposte più elevate o disavanzi pubblici, finché non riusciamo a liberarci della trappola Ue, è identificabile nelle statonote, moneta non a debito, legale entro i confini del territorio italiano, compatibile con i vincoli imposti dai trattati europei, già sperimentata con le 500£ di A.Moro (biglietti di Stato della Repubblica Italiana, emessi dal Tesoro), che ridarebbero senso compiuto alle scelte politiche e di programmazione economica di Governo e Parlamento, il primo impegnato ormai da troppo tempo in finti piani economici che non fanno altro che togliere risorse da una parte per riallocarle da un’altra, incrementando al contempo le imposte al paese ormai oltre qualsiasi livello di sostenibilità mentre il Parlamento si limita ad accogliere e ratificare direttive provenienti da Bruxelles, compito per il quale bastano anche meno parlamentari di quelli che ci resteranno dopo la prevista riduzione del loro numero.

Qualche ingenuo o finto tale, tra cui la commissione europea, spera nei Green Bonds, ma in borsa, da vent’anni a questa parte si investe per sfruttare la volatilità dei titoli sperando di continuare a guadagnare dalla loro compravendita, non  più da dividendi e rendimenti portati a scadenza. La speranza, d’altronde è ben riposta, almeno sino a quando il fiume di liquidità immesso dalle banche centrali riusciranno a gonfiare ulteriormente la bolla speculativa globale al fine di spostare più avanti possibile il momento del prossimo crollo borsistico che travolgerà tragicamente questo insostenibile stato di cose.

Tanti paragonano a sproposito il Green New Deal al New Deal di Roosevelt. Quest’ultimo è stato in gran parte finanziato da un istituto finanziario pubblico, la Reconstruction Finance Corporation (RFC), già istituito dal presidente Hoover che ha finanziato attraverso una rete di banche pubbliche (come la Cina oggi) infrastrutture viarie, dighe, ospedali, scuole, università, uffici postali, energia elettrica, fattorie ecc. La fonte di finanziamento dell’RFC è stata la vendita di obbligazioni che hanno generato un utile netto per il governo.

Oggi sarebbe necessario un sistema di banche pubbliche e un Qe verde se non europeo almeno su scala nazionale per il finanziamento degli investimenti pubblici necessari non solo quelli verdi.

Le banche pubbliche locali o regionali potrebbero aiutare a finanziare la transizione concedendo prestiti a bassissimo interesse o nullo o negativo per, ad esempio:
la costruzione e il potenziamento delle infrastrutture necessarie a trasformare ogni edificio in una unità, non solo di uso dell’energia, ma anche di produzione, adattando la rete per la sua distribuzione (smart grid) alla distribuzione di risorse energetiche pulite che ci si scambierebbe in una grande “internet dell’energia“ come, da tempo, propone J.Rifkin, impianti ad energia rinnovabile decentrati e ad alta efficienza energetica;
la trasformazione della nostra agricoltura in agroecosistemi (foreste edibili) insieme alla sostituzione delle importazioni valorizzando i nostri sistemi di produzione alimentare che risparmierebbero l’inquinamento derivante dalle necessità di trasporto finalizzate all’import/export e altri progetti.
Allo scopo sarebbe auspicabile la capitalizzazione di una rete di banche pubbliche verdi, stabilendo standard di responsabilità socioambientale per i programmi di prestito o vincolando gli incentivi fiscali alla partecipazione ai prestiti delle banche pubbliche.

Il tutto utilizzando moneta non a debito. Il denaro basato sul debito deve, infatti, essere continuamente rimborsato con gli interessi. Dato che il denaro viene continuamente rimborsato, è necessario generare nuovo debito se si vuole mantenere l’offerta di moneta… Questo crea una dinamica di crescita nell’offerta di moneta che vanifica gli obiettivi di coloro che cercano di raggiungere un’economia più socialmente ed ecologicamente sostenibile.

I banchieri privati delle grandi banche d’affari che si sono insinuati nel nostro sistema bancario non restituiscono i loro profitti alle economie locali a differenza delle banche pubbliche, che dovrebbero reinvestire i loro profitti per le esigenze locali.
Le grandi banche d’affari investono, piuttosto, nei mercati finanziari speculativi, estraggono valore che inviano all’estero o nei paradisi fiscali offshore e preparano il terreno per la ulteriore colonizzazione da parte delle grandi multinazionali e i loro grandi centri commerciali fisici e on line.

https://www.francescocappello.com

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