La pandemia e la globalizzazione: dalla peste nera al coronavirus

di Davide Gionco

Nell’anno del Signore 1347 l’Italia si trovò a far fronte all’epidemia di peste nera, che nel giro di un anno si diffuse a tutto il paese, facendo morire circa un terzo della popolazione del tempo.
Nulla di comparabile al corona virus, che sembra avere in Europa un tasso di mortalità dello 0,5%.

La peste ci mise 6 anni per diffondersi in tutta Europa.

 

Allora si trattava di un batterio, non di un virus, il bacillo Yersinia pestis, che si propagava tramite le punture delle pulci, diffondendosi di ratto in ratto, ma anche di animale in animale e di uomo in uomo, con ratti, animali e uomini (e pulci) che viaggiavano insieme con le merci in tutta Europa.

In realtà la pandemia era arrivata dalla Cina, passando per l’Asia centrale.  Secondo alcuni studiosi, pare che si fosse originata ancora prima del 1320 nel regno di Pagan, nell’attuale Birmania.

Allora la “globalizzazione” esisteva già, ma viaggiava molto a rilento. Per questo ci vollero molti anni per propagare la pandemia.
Oggi siamo nell’epoca della “globalizzazione accelerata”, che viaggia veloce, che riduce i tempi degli spostamenti a poche ore, che moltiplica le occasioni di contatto fra persone che vivono molto distanti fra loro. e de
Sono molti anni che politici, giornalisti ed economisti decantano i grandi vantaggi della globalizzazione, senza mai mostrarci gli svantaggi ed i pericoli.

In questi giorni ci ritroviamo di fronte ad una pandemia che avanza a ritmi velocissimi, proprio a causa della rapidità e della frequenza di scambi e spostamenti di persone e di merci.
Tutto questo potrebbe causare un leggero aumento del tasso di mortalità fra la popolazione, dato che la rapidità della diffusione è superiore ai tempi necessario per mettere a punto un vaccino contro il nuovo virus.

Ma, al di là delle conseguenze sanitarie e demografiche che in questo momento nessuno è in grado di valutare, è evidente che vi saranno pesanti conseguenze economiche, in quanto vengono inceppati i meccanismi della produzione in un mercato globalizzato.
Negli ultimi anni il modello economico del libero scambio delle merci ha portato alla chiusura di moltissime attività produttive in Italia ed in Europa, le quali sono state trasferite in paesi in cui i costi di produzione sono inferiori. Questo perché l’unico parametro preso in conto dal sistema economico sono la minimizzazione dei costi di produzione e la massimizzazione del profitto.

Ora che la Cina blocca la produzione ed i commerci per motivi sanitari, ci si accorge di non avere alternative alla produzione di componenti fondamentali per le attività manifatturiere a maggior valore aggiunto ancora presenti in Europa ed in Italia.
Senza i componenti la produzione si fermerà e resteremo senza la disponibilità di molti prodotti utili e magari indispensabili per la nostra vita quotidiana.
I pochi prodotti ancora disponibili aumenteranno di prezzo, diventando inaccessibili per la maggior parte della popolazione, che già da anni ha dovuto fare i conti con la svalutazione salariale, sempre per “essere competitiva” con i mercati globalizzati.

Negli anni ’60 l’Italia aveva scambi con l’estero per circa il 10% del PIL ovvero produceva da sé il necessario per il 90% del PIL. La maggior parte dell’economia era economia interna.
Oggi l’Italia scambia con l’estero quasi il 30% del PIL ovvero produce da sé solo per il 70% del PIL e dipende dall’estero per il 30% dei beni e servizi di cui abbiamo bisogno per vivere.
Eppure l’Italia avrebbe la possibilità di produrre quasi tutto da sé, in quanto abbiamo le competenze professionali per farlo. Potremmo limitarci ad importare le materie prime che ci mancano ed alcune tecnologie che non siamo in grado di riprodurre il Italia. Per il resto potremmo produrre tutto grazie alla capacità dei lavoratori in Italia.

Si potrebbe quindi certamente “ritornare indietro” agli anni ’60 e riprendere a produrre in Europa ed in Italia, ma questo significa fare investimenti, significa ri-formare le competenze professionali. Se anche riuscissimo a trovare il denaro per gli investimenti (cosa molto difficile in una Europa in preda all’isteria delle politiche di austerità), ci vorrebbero comunque degli anni a rimettere in piedi un sistema produttivo adeguato a produrre quanto ci occorre per vivere, senza più dipendere dalle importazioni dalla Cina. E questo facendo solo accenno al fatto che in Italia ed in Europa facciamo sempre meno figli, per cui disponiamo di sempre meno giovani lavoratori. E per “fare” un giovane lavoratore ci vogliono minimo 20-25 anni, fra partorirlo, crescerlo e formarlo all’attività professionale.

Il fatto di riporre le proprie garanzie di benessere sulla capacità produttiva di altri paesi si rende disarmati di fronte ad imprevisti cambiamenti che potrebbero frenare quel sistema produttivo, sul quale non abbiamo alcuna forma di controllo.

Il modello non funziona male solo dal lato importazioni, ma anche dal lato esportazioni.
La Germania ha fondato da molti anni il suo successo economico sull’esportazione di merci in tutto il mondo. Ora che la storia decide di porre un freno agli scambi economici internazionali, a motivo della pandemia o dei dazi di Trump, il sistema produttivo tedesco non potrà che andare incontro ad un crollo, con relativo seguito di un aumento della disoccupazione. E l’Italia negli ultimi anni, non potendo espandere la sua economia sul mercato interno a motivo delle politiche di austerità imposte dall’Unione Europea, si è conformata alle logiche produttive e mercantili della Germania.

Le prospettive sono tragiche: aumento della disoccupazione, sia in Cina che in Europa (e in Italia), aumento dei prezzi, indisponibilità di prodotti necessari e magari indispensabili.
Crollo del prodotto interno loro, con conseguente impossibilità a fare fronte al pagamento dei debiti, pubblici, ma soprattutto privati. Fallimenti di imprese, di banche. Difficile prevedere tutte le conseguenze su di un sistema economico che non è altro che un gigante dai piedi di argilla.

Il destino prossimo che ci attende è, quindi, tendenzialmente molto negativo. Soprattutto se non sappiamo leggere i segni dei tempi e fare tesoro dell’esperienza, portando dei forti cambiamenti all’attuale sistema economico mondiale e, in particolare, italiano.
Nel XIV secolo la diffusione della peste nera, con il suo strascico di morti e di paura, ebbe un forte impatto culturale sulla società del tempo e portò a mettere in discussione molti aspetti sociali del modo di vivere di allora.
Ritornando ad oggi, non si tratta di confondere gli aspetti sanitari con quelli economici, ma si tratta di ragionare più a fondo sugli svantaggi di un modello economico e sociale che implica la necessità di produrre merci in luoghi molto distanti, che implica la necessità di fare molti viaggi, di avere molti interscambi.

Negli interscambi vi sono certamente degli aspetti positivi, ma non è saggio non tenere in conto gli aspetti negativi.
Potremmo ad esempio continuare a far viaggiare le conoscenze, cosa oggi relativamente semplice grazie all’impressionante evoluzione delle telecomunicazioni. Ma potremmo senza troppi danni porre un forte freno agli scambi economici, puntando a produrre beni e servizi soprattutto nei luoghi dove devono essere consumati.
Mettere al centro delle nostre scelte economiche solo il business, senza tenere conto degli aspetti sociali, ambientali e sanitari, alla fine non ci porta ad essere più ricchi, ma più poveri.

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