John Kenneth Galbraith: Economia della “truffa” e stabilità sociale

di Gianfranco Sabattini

Secondo John Kenneth Galbraith la radice di gran parte dei mali che affliggono le cosiddette economie di mercato è da cercare, non solo – come spesso si afferma – nello strapotere espresso dalle grandi imprese, ma anche – e forse soprattutto – dall’informazione mendace che il sapere tradizionale concorre a diffondere sulle cause del verificarsi e dell’evolversi dei fatti economici. Nelle cosiddette economie di mercato si è progressivamente affermato un sistema di comunicazione che distorce la verità a piacimento di chi controlla il sistema stesso. Con ironia e indignazione, Galbraith, secondo il suo stile, in “L’economia della truffa” mostra come abbiano perso di credibilità i risultati dell’analisi economica e molte delle ipotesi cui essa fa riferimento, come la presunta indipendenza dei mercati, la sovranità del consumatore, la distinzione tra pubblico e privato, l’idea che l’austerità e il contenimento della spesa pubblica possano sempre assicurare il rilancio dell’economia in crisi, e così via.

A parere di Galbraith, “in nessun campo, più che in economia e in politica, la realtà è deformata dalle preferenze e inclinazioni sociali, nonché dal tornaconto personale e di gruppo”; il grande economista, americano di adozione e canadese di nascita, morto nel 2004, sostiene e corrobora con dovizia di esempi e riferimenti, la tesi secondo cui “in seguito a pressioni economiche e politiche e alle mode del momento, tanto l’economia quanto realtà politico-economiche ancora più vaste coltivano una loro versione della verità”; la quale non avrebbe necessariamente un qualche rapporto con la realtà, per cui la colpa non sarebbe di nessuno, in quanto la preferenza della gente comune sarebbe sempre aperta ad accogliere ciò che “fa comodo pensare”.

Parlando di preferenza, Galbraith chiarisce di riferirsi a ciò che “aiuta, o almeno non ostacola, gli interessi che contano: economici, politici e sociali”. La maggior parte dei “truffatori”, cioè di coloro che spargono false informazioni, siano essi imprenditori singoli o collettivi, politici, economisti professionali o, in generale, opinion maker, non sarebbero al servizio di nessuno; essi semplicemente non avrebbero “nozione di cosa abbia generato e modellato il loro punto di vista”; non sarebbe, perciò, “in gioco nessuna forma evidente di illegalità”. Alla radice del problema non ci sarebbe “il disprezzo della legge, ma la forza delle credenze personali e sociali”: per tutti questi motivi, a parere di Galbraith, nei “truffatori” mancherebbe ogni senso di colpa, semmai ci sarebbe autocompiacimento.

Come può una “truffa” – si chiede Galbraith – essere innocente e a non suscitare alcun senso di colpa? Accade – è la risposta – perché, né chi vi riflette sopra né chi, poi, la compie è consapevole della “truffa”; in conseguenza di ciò, nessun “truffatore” si sentirebbe in colpa o penserebbe di aver fatto qualcosa di sbagliato. Della “truffa” innocente – afferma Galbraith – una parte è imputabile alla scienza economica tradizionale e al modo in cui viene insegnata; un’altra parte è imputabile alle opinioni correnti circa il modo in cui si svolge il processo economico; queste opinioni, trasformandosi in “sapere convenzionale”, diventano altra cosa dalla realtà; ciò non ostante, tra le opinioni e la realtà – afferma Galbraith – “ciò che conta alla fine è la seconda”.

Per quanto profondo possa essere il convincimento che quanto si è studiato abbia basi al di sopra di ogni sospetto, l’”errore riconducibile alla vox populi è sempre in agguato. Nella vita reale a comandare non è la realtà; sono la moda del momento e l’interesse pecuniario”. Questi fattori hanno un tale peso che “la stessa percezione quotidiana del sistema economico ne subisce l’influenza”; ne è prova, a parere di Galbraith, il fatto che quando il capitalismo, il tradizionale quadro teorico di riferimento del funzionamento del sistema economico, “ha smesso di essere accettabile, il sistema è stato ribattezzato”; il nuovo nome, “sistema mercato”, è stato adottato perché ritenuto “più innocuo”, in quanto privo del significato “sgradevole” col quale il termine capitalismo era percepito all’orecchio dell’opinione prevalente.
All’origine, il termine capitalismo serviva a designare un sistema economico all’interno del quale l’autorità ultima in campo economico era attribuita a coloro che controllavano, in quanto proprietari, tutte le risorse investire nell’organizzazione delle attività produttive; ma oggi, al di sopra di certe dimensioni, il potere decisionale è svolto dal management, composto da tutti coloro che, pur non essendo i proprietari delle attività produttive, hanno la responsabilità della loro gestione. Il lento formarsi del potere della grande industria e del suo management ha finito coll’evocare un funzionamento del sistema economico nel quale al potere monopolistico delle grandi imprese si è contrapposto al loro interno una dura soggezione dei lavoratori, sino a giustificare la plausibilità di una rivoluzione, così com’è avvenuto durante e alla fine della Prima guerra mondiale in Russia.

Se in Europa il capitalismo ha evocato l’idea della rivoluzione, in America ha ispirato l’adozione di una legislazione e di una giurisprudenza finalizzate alla sua correzione e regolamentazione. La sostituzione della parola capitalismo con l’espressione “sistema di mercato” è stata però un’”operazione cosmetica, fiacca e insipida, destinata a coprire una scomoda realtà: quella delle corporation, ovvero del predominio della produzione, capace di manipolare la domanda e, in sostanza, di controllarla”. Oggi, la parola mercato è sulla bocca di tutti: ne parlano i leader politici, i giornalisti specializzati nel trattare i problemi economici e la maggior parte degli economisti professionali. Nonostante la terminologia sostitutiva, mai viene evocata l’esistenza all’interno del mercato di una qualche forma di supremazia, nonostante la generalizzata percezione che non si tratti della massima istituzione economica affrancata da ogni forma di condizionamento. Per tutti gli opinion maker, ma non solo per essi, esiste solo l’impersonalità del mercato; una “truffa”, questa, secondo Galbraith, “non del tutto innocente”.
In nome del mercato, asettico e indipendente, viene anche affermata l’esistenza di una “sovranità del consumatore”, ovvero l’avvento della democrazia in economia, resa possibile dal presunto “libero mercato”. Sennonché, dove prevalgono le posizioni di monopolio e le posizioni dominanti delle grandi corporation, il consumatore non può avere libertà di scelta. Ciò nonostante, afferma Galbraith, la “nozione di sovranità del consumatore è ancora in auge nell’insegnamento dell’economia e, in generale, nell’apologetica del sistema economico”. La credenza nell’esistenza di un’economia di mercato in cui l’acquirente è ipotizzato sovrano è, secondo Galbraith, “una delle più convincenti forme di truffa”.

La sottrazione al consumatore del controllo dell’innovazione, della produzione e della vendita dei beni e servizi prodotti ha consentito agli effettivi controllori del mercato di stabilire che il progresso fosse misurato in base all’esclusivo incremento della produzione, attraverso l’aumento del solo prodotto interno lordo (PIL). Ma è proprio nell’asettica valutazione del PIL che “si annida – afferma Galbraith – anche una delle più comuni forme di truffa”; ciò, perché la determinazione del PIL è stabilita non dai consumatori nel loro insieme in quanto cittadini, ma da coloro che producono le cose che compongono lo stesso PIL, senza che riguardo alla sua composizione il consumatore abbiano voce in capitolo. In questo caso, la “truffa” sta nel misurare il progresso del sistema sociale sulla base di ciò che più conviene a coloro che controllano il mercato e non in base alla presunta sovranità del consumatore.

L’aspetto che maggiormente preoccupa delle tante “truffe” consumate ai danni dei cittadini è, conclude Galbraith, il modo in cui “il potere della grande impresa piega gli obiettivi pubblici alle proprie necessità e al proprio utile. La sua visione, che tende a diventare generale, è che una società prospera è una società con più automobili, televisori, capi di abbigliamento e ogni genere di altro bene di consumo materiale […]. Gli effetti sociali negativi – l’inquinamento, il degrado ambientale, l’insufficiente attenzione per la salute, il rischio di conflitti armati e il relativo costo umano – non compaiono nel bilancio. Misurando i risultati, gli effetti positivi e negativi sembrano sommarsi anziché elidersi”. Tutto ciò, a parere di Galbraith, comporta rischi, non solo per la grande impresa, ma per l’intera umanità, sia per i pericoli di guerre indesiderate, sia per l’instabilità della convivenza sociale costantemente esposta all’instabilità indotta da un funzionamento del sistema economico che, a causa delle numerose “truffe” commesse ai danni del funzionamento delle sue istituzioni, sta condizionando la quotidianità della vita dei cittadini.

Singolari, a commento di queste tesi, appaiono le osservazioni che Mario Deaglio effettua nella Prefazione al volume di Galbraith; pur condividendo nel complesso la critica galbraithiana del modo in cui il cittadino viene disinformato, riguardo al modo ideale in cui dovrebbero svolgersi i fatti economici, Deaglio sembra dolersi del fatto che la critica pecchi della mancata “visione di un mondo perfetto che Galbraith non descrive mai”. In conseguenza di ciò, resterebbe irrisolto, secondo Deaglio, il problema della più conveniente reazione alla denunce dell’economista americano; ovvero, se occorra reagire, al limite con una rivoluzione culturale con cui porre rimedio agli esiti delle molte “truffe”, oppure se occorra convincersi che un po’ di “truffa” si è pure disposti ad accettarla.
Dopotutto, conclude sorprendentemente Deaglio, “dal tempo dei Romani, il diritto ammette il cosiddetto ‘dolus bonus’ che altro non è che una forma di ‘truffa innocente’, ossia un’esaltazione iperbolica dei prodotti fatta da parte del venditore che, senza veramente ingannare il pubblico, lo spinge all’acquisto”. Quanto ‘dolus bonus’, si chiede Deaglio, è possibile accettare in economia e in politica? Non sarà per caso che un po’ di dolus è necessario per “garantire il normale funzionamento della società?” Forse, a parere di Deaglio, è da questa domanda che occorre partire per una ricerca sul cosa fare.

Si può certamente essere d’accordo sul fatto che per stabilire come reagire alle “truffe” denunciate da Galbraith, sono forse necessari ulteriori approfondimenti, ma non per stabilire sino a che punto le “truffe” perpetrate dai poteri forti che dominano i mercati e la scena politica ai danni dei cittadini siano giustificate, in quanto dolus bonus utile al funzionamento del sistema sociale.
E’ questa una tesi che, in ultima istanza, è giustificatoria dei comportamento con cui i poteri forti fanno prevalere nel “sapere convenzionale” ciò che per loro è più conveniente, così come appaiono giustificatorie le parole dello stesso Galbraith circa la natura delle “truffe”. Queste, in realtà, non sono mai innocenti, in quanto sono sempre effettuate scientemente e intenzionalmente da chi da esse intende trarre profitto.


Tratto da:
http://www.democraziaoggi.it/?p=4867

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