DIRITTI UMANI: VALORI CHE ATTENDONO UNA POLITICA RESPONSABILE

Abbiamo un enorme campo di gioco, in cui tutti potrebbero vincere

 

Il tema dei diritti umani sta diventando di nuovo assai caldo, e lo sarà sempre di più: si stanno celebrando i 70 anni della Dichiarazione Universale, che ho commentato con questo ma, come ripeto anche qui, c’è ancora tanto da capire e costruire.

Brevemente, la mia critica per le ingiustizie contemporanee non va sicuramente ai diritti umani, essendo questi una carta di intenti e valori non contenente obblighi giuridici: va certamente alla politica, che sembra ancora “incapace” di comprenderne il disegno complessivo, ed a molti degli stessi “difensori” che ne fanno un uso particolare, come vedremo più avanti, trascurandone delle parti o enfatizzandone  altre, anche in modo non coerente.

La politica di destra forse non riesce ancora a “digerirli” completamente; quella di sinistra neo-liberale li ha nell’agenda, ma in linea del tutto teorica: si mobilita solo per alcuni di essi, oltretutto con una lettura assai liberista che va a detrimento degli altri e della fondamentale “etica” che rappresentano.

La sinistra ormai trascura clamorosamente quelli più “sociali”, che un tempo avrebbero certamente caratterizzato l’essere “di sinistra”.

La sinistra più radicale li percepisce, in sostanza, come un prodotto liberal-americano-capitalista mostrando una grave incapacità di vederli per quello che sono, cosa potrebbe accadere se veramente attuati.

La “colpa” dei diritti umani sarebbe quindi anche quella di non essere riconducibili a passate ideologie: un punto di vista miope che non riesce a comprendere la sintesi universale compiuta nella Dichiarazione del 1948.

Questa mia premessa serve ad introdurre il commento a tre articoli sul tema, iniziando dal più recente a firma Donatella Di Cesare: non concordo con ciò che scrive sul Corriere della Sera proprio il giorno della celebrazione mondiale, il 10 dicembre.

Precedentemente avevo apprezzato l’autrice qui per delle riflessioni sulla laicità, ma criticata qui per il suo attacco scomposto a Diego Fusaro.

Nel primo articolo manteneva il suo intervento ad un livello culturale inattaccabile, cosa che non le riusciva nel secondo e, mi sembra, anche in questo che mi accingo a commentare.

Guarda caso, la parola “naufragio” è presente sia nell’articolo in questione, sia in un passaggio del primo che commentai: lì era il naufragio della laicità, qui dei diritti umani. Comunque, andiamo con ordine.

L’articolo si intitola “IL NAUFRAGIO DEI DIRITTI UMANI (ANCHE) NELLE DEMOCRAZIE LIBERALI. A 70 anni dalla dichiarazione universale Onu viene criminalizzato chi li difende”.

Veniamo ad alcuni passi: “… non si può fare a meno di constatare il naufragio dei diritti umani, soprattutto negli ultimi anni. Anziché essere protetti, rafforzati, estesi, quei diritti sono stati apertamente attaccati oppure nascostamente minati. Non solo nei regimi totalitari, ma anche nelle democrazie liberali. I motivi del naufragio sono molteplici. Alcuni sono insiti già nel testo. Pur restando un documento fondamentale, il codice dei diritti umani è il prodotto dell’Occidente illuminato. Con il tempo ha finito per rivelarsi una sorta di lingua artificiale, priva di spessore storico. Non è un caso che i vari articoli siano stati intesi diversamente malgrado la loro pretesa universalità”.

Ai motivi del presunto naufragio arriveremo fra poco, intanto non si capisce cosa manchi a questi principi, che vogliono essere universali e che lei stessa riconosce essere “documento fondamentale”, per acquisire “spessore storico”.

Non basta il fatto che gran parte dell’“umanità politica” sia riuscita a sottoscriverli dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, dell’Olocausto e dell’atomica?

Prendersela poi con l’“Occidente illuminato” non vuol dire niente: qualsiasi consesso che in qualsiasi parte del mondo li avesse scritti avrebbe, secondo questa logica, potuto essere parimenti accusato.

Il problema è, almeno credo, riconoscere l’universalità dei valori in questione e capire che all’interno di essi c’è la maggior libertà e dignità possibile per tutti gli uomini e per tutte le culture che sappiano, vogliano e possano compiere uno sforzo di pace e comprensione reciproca.

La carta dei diritti umani è un grande lavoro di sintesi, di assunzione di istanze coagulate nella storia dalle varie culture, sia “umanista-illuminista”, sia religiosa: la sua universalità pretendeva un serio lavoro ed accordo fra i 58 Paesi firmatari, una loro piena e reale assunzione che avrebbe dovuto infondere nella cultura e nel tessuto sociale quanto scritto sulla carta.

Il vero problema credo sia squisitamente di volontà e opportunità: quanto da me auspicato è un lavoro “politico”, richiede una precisa volontà politica che deve superare le altre volontà, economiche ed egemoniche in primis, mettendole in second’ordine, anzi, al servizio del bene comune rappresentato dai diritti umani.

La Dichiarazione Universale non è un editto del Re, non è “auto-applicativa”, necessita di impegno civile, consapevolezza democratica e volontà politica.

Oltre a ciò: forse l’uso ipocrita dei diritti umani, con cui si sono giustificati interventi armati che hanno causato milioni di morti fra civili e maggior influenza americana e occidentale, ha qualcosa a che fare con il fatto che “siano stati intesi diversamente malgrado la loro pretesa universalità”?

Questo non è preso in considerazione.

Anche i due passaggi seguenti non mi trovano concorde: “Quel codice universale sembra scaturito da un’etica che promette solo legami astratti. D’altronde i diritti hanno un’impronta fortemente individualistica: è il singolo ad essere il protagonista. Il ruolo della comunità, che oggi appare sempre più decisivo, è invece trascurato. … quei diritti sono destinati a restare sulla carta, perché gli Stati, pur aderendo idealmente, non sono obbligati a rispettarli”.

Qui abbiamo un duplice problema, credo non afferrato dall’autrice.

Innanzitutto dobbiamo comprendere il fatto che nel momento in cui qualsiasi codice etico non deontologico diviene oggetto di imposizione perde il suo valore: trasformandosi in qualcosa di autoritario squalifica irrimediabilmente la sua stessa etica.

Ciò vale sia a livello personale sia nazionale: le dignità e le libertà per l’uomo insite nei 30 diritti, risulterebbero autoritarie e da rigettare in una cultura non pronta ad accettarle.

Oltre a questo, come già detto, si è ormai capito abbondantemente che i tentativi della comunità internazionale di “proteggere militarmente” tali diritti altro non erano che guerre di occupazione e conquista, spacciati ipocritamente come “esportazioni di democrazia”.

Per non parlare del tema immigrazione: interpretando in maniera ipocrita la libertà sacrosanta di ogni persona di muoversi senza ostacoli, si vorrebbe determinare un “diritto alla migrazione” di massa, indifferenti alle evidenti problematiche per le varie comunità.

Proprio questo è uno dei modi in cui si uccidono i diritti umani: si “dimentica” il fatto che la migrazione è, innanzitutto, una grave ingiustizia che subisce chi si vede costretto ad abbandonare le sue terre ed i suoi cari per sopravvivere.

Si celano alla vista dell’opinione pubblica le cause che stanno alla base della povertà e delle altre condizioni che provocano l’immigrazione, da ascrivere prevalentemente alle politiche colonialiste di sfruttamento dell’Africa da parte delle corporazioni globali e di quei paesi che, paradossalmente, si fanno vanto di diritti che violano costantemente: come ad esempio la Francia che ha visto nascere la Dichiarazione Universale sul suo suolo, ma che schiavizza bellamente ancora 14 Paesi africani con una sua moneta-debito.

I diritti universali si dovrebbero “assumere” interiormente, volontariamente e consapevolmente, come individui, popolo e nazione, altrimenti non avremo alcun passo avanti, nessun salto di qualità nei rapporti umani, sociali e fra comunità.

L’aiuto ad operare in tal senso può solo essere culturale, di sostegno e cooperazione, mai un’occupazione militare e/o sfruttamento finanziario.

È compito della società civile e politica di ogni nazione immettere i diritti umani nella propria cultura, e di conseguenza nella giurisdizione, per poi farli veramente rispettare.

A questo primo passo dovrebbe seguire il rispetto di tali principi, cosa questa assai più difficile anche nei Paesi come il nostro che si collocano fra i maggiori “recettori” di tali diritti: la nostra Costituzione, sempre meno attuata, anticipava di pochi mesi la Dichiarazione Universale già all’Art. 2.

Quanto da me sinora affermato è ben chiaro nella Dichiarazione Universale, sin dal suo Preambolo che riporto per intero:

Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;

Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo;

Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione;

Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni;

Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà;

Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali;

Considerato che una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni;

L’ASSEMBLEA GENERALE

proclama

la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione.

Da quanto appena letto capiamo che la Dichiarazione Universale ha bisogno, necessariamente, di un’integrale presa in carico da parte della politica di ogni Nazione che senta di doverli e poterli assumere come faro di integrità e legittimità, di ideale comune, e farne oggetto di insegnamento ed educazione.

Non cerchiamo obblighi giuridici fra Stati dall’esito incerto, addirittura contrario.

Il secondo problema che mi sembra di vedere nelle argomentazioni della Di Cesare è parimenti grave: accusare di “individualismo” i diritti umani credo sia un clamoroso errore, forse dovuto ad un “retaggio ideologico”.

Il già riportato “Preambolo” ha, come abbiamo visto, una piena valenza sociale, riscrivere quei diritti sostituendo “uomo” con “umanità”, ad esempio, non servirebbe a niente: i peggiori regimi compiono le loro efferatezze con la pretesa di servire un “bene collettivo” di qualche tipo, negando dignità a individui delle più disparate estrazioni etnico-socio-culturali.

Per essere universali e culturalmente incisivi al contempo, i 30 diritti devono necessariamente riferirsi ed appartenere ad ogni Uomo in quanto tale, come singolo e come “entità mattone” costituente l’Umanità intera.

Oltre a ciò, il diritto alla dignità e alla libertà di ogni uomo prescrive automaticamente la responsabilità di ognuno verso l’altro, ragion per cui si trasforma immediatamente in dovere, acquisendo di fatto un’indubitabile valenza sociale.

Vediamo l’Art. 1:

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

La biunivocità del diritto è palese, indubitabile.

C’è poi un passaggio dell’autrice che a me sembra inizi a farci intravvedere il “vizio” delle sue argomentazioni, come poi scopriremo clamorosamente in conclusione: “Sempre più acuto è il contrasto, lasciato in eredità dalla Rivoluzione francese, fra i diritti dell’uomo e quelli del cittadino. I diritti umani valgono solo se si possiedono i privilegi del cittadino. Chi non ha cittadinanza, un passaporto da esibire, lo scudo di uno Stato-nazione, non ha protezione giuridica. Di nuovo: è lo Stato sovrano che detta legge…”.

Anche qui, la speculazione dell’autrice dovrebbe, al limite, riferirsi alle eventuali interpretazioni che per motivi e convenienze varie si sarebbero formate nella storia, come quella da me prima indicata per l’immigrazione, non ai diritti umani stessi, che già all’Art. 2 sono perentori:

Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità.

Tutti gli articoli si riferiscono all’Individuo, alla persona, a cui non si associa mai la parola “cittadino”, anche se la cittadinanza è ovviamente uno dei diritti, il numero 15.

Oltre a ciò, è l’individuo che proprio giuridicamente dovrebbe essere protetto, come da Art. 6 e 7:

Ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica.

Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.

Per essere ulteriormente chiara, la Dichiarazione Universale si chiude con il seguente Art. 30:

Nulla nella presente Dichiarazione può essere interpretato nel senso di implicare un diritto di un qualsiasi Stato, gruppo o persona di esercitare un’attività o di compiere un atto mirante alla distruzione di alcuno dei diritti e delle libertà in essa enunciati.

Anche la seguente frase dell’autrice prosegue, a mio parere nell’errore di prospettiva: “… a proteggere è il diritto, non l’umanità. Così, chi non è coperto da bandiere e drappi, chi è più esposto nella propria nuda umanità, non può paradossalmente avere protezione. I diritti umani, inalienabili, irriducibili, non derivanti da alcuna autorità, sono allora condannati a naufragare. E con loro gli esseri umani respinti, banditi nell’inumano”.

Come farebbe l’“umanità” a proteggere se stessa ed i suoi componenti senza diritto e senza uno Stato di diritto che riconosca i diritti universali come insiti nella sua “anima”, non è dato sapere.

I drappi  e le bandiere non contano per i diritti umani: se veramente attuati dalla politica garantirebbero sempre ed a tutti sostegno e protezione.

Il vero problema per l’autrice, che penso non usi casualmente i termini nuda umanità, naufragare, esseri umani respinti, credo sia quello di forzare il concetto equiparando la “protezione” al “diritto di emigrare”, compiendo lo stesso errore della “narrazione mainstream” sulla migrazione, da me individuato precedentemente.

Ciò credo sia confermato, in tutta la sua tragica gravità, dal passaggio conclusivo: “Il divario sempre più ampio è ormai quello tra la sfera politica, dominata dagli Stati, e l’azione umanitaria. Si spiega così la difficoltà in cui si dibattono gli enti sovranazionali e soprattutto le organizzazioni umanitarie. A cominciare da quelle che si occupano dei rifugiati. Proprio perché dovrebbero operare tra gli Stati, non solo sono costrette all’impotenza, ma vengono continuamente delegittimate e diffamate. È l’effetto di questi tempi in cui è diffuso un oscuro e inquietante sovranismo: non la tutela e l’applicazione dei diritti umani, bensì, al contrario, la criminalizzazione di chi li difende”.

Con questa chiusura appare del tutto chiaro l’orizzonte dell’autrice, teso ad attaccare il “sovranismo”: mostra di accodarsi alla narrazione politico-mediatica che associa, in buona sostanza, la parola “sovranismo” alla “destra”, mentre a mio parere, e come sostenuto da molti sovranisti, almeno in Italia, il termine è da ricondurre a quella “sovranità popolare” che la Costituzione mette avanti a tutto.

Criticando il sovranismo ed esplicitamente lo “Stato sovrano che detta legge” come nel passaggio da me precedentemente riportato, l’autrice si accoda di fatto a quelli che sostengono il più grave e importante fenomeno politico degli ultimi decenni: la progressiva perdita delle sovranità dello Stato di diritto.

Sovranità erose da logge ed organismi transnazionali e globali che, armati di media, finanza ed enormi complicità politiche, vedono negli Stati Sovrani l’ultimo ostacolo alle loro mire di potere e controllo, almeno per l’Occidente.

Stati sempre meno sovrani quindi, che si stanno anche indebolendo giuridicamente in sede internazionale, come nelle sedi di arbitrato con le gigantesche multinazionali private!

La Di Cesare sembra non vedere tutto ciò quando afferma che la “sfera politica” sarebbe “dominata dagli Stati”.

Vorrebbe demolire ulteriormente lo Stato di diritto nei confronti degli “enti sovranazionali” e delle “organizzazioni umanitarie” che, come si è visto, non sono sempre così integerrime come pretendono?

Proprio questi, a mio parere, sono i fenomeni politici che danno legittimità ad un necessario “sovranismo”, certo altra cosa da quello “destrorso” che preme sul “bottone sicurezza” ma senza vere soluzioni sistemiche.

Del “sovranismo” di facciata che lascia intatto il “sistema” nelle sue ingiustizie e sperequazioni non sappiamo che farcene.

Occorre, per tutto ciò, un sovranismo sganciato da ideologie varie ma consapevole che: per proteggere i diritti di ogni uomo e di ogni comunità sia necessario rinnovare proprio quello Stato di diritto, ora in grave pericolo, con una vera cultura dei diritti umani da mettere maggiormente in costituzione ove necessario e, soprattutto, con l’intenzione di attuarne i principi.

Veniamo ora al secondo articolo, sicuramente più corretto anche se non esente da “particolarità”, tratto dall’inserto “7” del Corriere della Sera del 29 novembre scorso, a firma Massimo Nava: “I DIRITTI UNIVERSALI NON VALGONO PER TUTTI. E fake news e algoritmi sono una nuova emergenza. A 70 anni dalla carta firmata a Parigi che garantisce la dignità e la libertà degli esseri umani, possiamo fare un bilancio: quali diritti vengono rispettati e quali no? Il progresso sociale e civile si è diffuso in molte aree e problematiche, ma ci sono arretramenti in Paesi già sviluppati, legati al mercato del lavoro e alle migrazioni”.

Vediamo subito come l’approccio del Nava sia sostanzialmente più corretto, già solo per il fatto di evidenziare che non si stanno rispettando tutti i diritti, anche nei Paesi sviluppati.

Ad ogni modo, ciò non lo esenta, come vedremo, da alcune “parzialità”.

Il fatto che all’inizio della sua riflessione l’autore menzioni il “bombardamento atomico” insieme alle altre tragedie del 900 è comunque rilevante: molta retorica sui diritti umani parla giustamente dell’Olocausto, “dimenticando” però i due “regali” alla pace mondiale firmati USA.

Anche la menzione al problema “algoritmi” è interessante, anzi, direi doverosa, mentre, come vedremo, l’accenno alle fake news è, come prevedibile per uno dei maggiori media, male indirizzato. Andiamo con ordine.

Tutta la prima parte dell’articolo è politicamente corretta, come ci si può aspettare da un articolo “generalista” su questo argomento, molto più dell’analisi della Di Cesare che, anche se più profonda, come abbiamo visto denota un’ottica che possiamo definire eufemisticamente “parziale”.

Veniamo a questo passaggio centrale: “Prendiamo in esame le discriminazioni del mercato del lavoro, la povertà di ritorno, lo sfruttamento minorile, la condizione dei migranti, la messa in discussione di diritti acquisiti. È per queste ragioni che la dichiarazione universale conserva intatta la sua forza etica e il senso di impegno per tutta l’umanità. … sui diritti da difendere e sui diritti ancora da conquistare … considerare non soltanto il molto che resta da fare ma anche le nuove emergenze che minacciano la condizione umana. In primo luogo, l’emergenza ambientale, che da un lato distrugge la salute, economia e progresso nelle aree più sviluppate e che, dall’altro lato, fa arretrare ancora di più le popolazioni delle aree più povere, provocando inoltre conflitti per le risorse e ondate migratorie sempre più massicce. … le ondate migratorie richiamano la coscienza del mondo alla difesa della dignità della persona … al diritto a ricercare condizioni di vita più favorevoli”.

Oltre a non dire tutto sulle migrazioni, al pari della Di Cesare, il Nava ne fornisce una sola motivazione, o almeno la mette al primo posto senza indicarne altre: il cambiamento climatico.

Certo, e al netto della tematica sulle modificazioni climatiche “volute”, su cui non voglio qui impelagarmi, se l’unica causa delle migrazioni fosse solo climatica l’Occidente non dovrebbe far altro che chiedere scusa e sopportare la migrazione causata dal suo stesso sviluppo tecnologico-industriale, oltretutto aggravata dal fatto che non ha aiutato l’Africa a svilupparsi parimenti, democraticamente e senza interferire troppo nelle politiche interne.

Sembra insomma che il clima sia un diverso modo di nascondere altre cause, democraticamente e umanamente molto più gravi, dato che lo sviluppo tecnologico credo comporti necessariamente un’era di passaggio fra un iniziale forte impatto ambientale ed una successiva di “correzione”, permessa da nuove tecnologie.

Il problema è che la non corretta gestione delle tecnologie, perché sostanzialmente privata e sganciata dalla politica, porterà non solo ai disastri ambientali ma anche ad un ritardo nel passaggio alla nuova, auspicabile, fase ecologica, che potrebbe anche non giungere mai qualora prevalessero definitivamente le “pazzie” del profitto, del domino e della guerra.

Veniamo all’ultimo passaggio del Nava su cui avrei qualcosa da dire: “… non dovrebbero sfuggire le conseguenze devastanti delle fake news e del controllo globale degli algoritmi sullo sviluppo della vita democratica e sulla partecipazione dei cittadini alla formazione delle decisioni. Un articolo andrebbe riformulato in modo più esteso: ‘Nessun individuo può essere sottoposto a interferenze arbitrarie della sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesioni del suo onore e della sua reputazione’”.

Benissimo l’accenno al fatto che il controllo della tecnologia e dei sistemi, che usano e useranno per un numero sempre maggiore di ambiti gli algoritmi, sia un serio problema di democrazia, ma non si capisce dove sia la maggiore estensione proposta, dato che l’Art. 12 dei diritti dell’uomo, a cui evidentemente si riferisce, recita esattamente:

Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.

Praticamente identici, se non nel fatto che in quello del Nava manca l’accenno al diritto di essere tutelati, allora sorge il dubbio: che sia un invito ad inserirci il tema “fake news” evocato?

Chi stabilirebbe, in tutta coscienza e democrazia, quale sarebbe la verità?

Dovremo rassegnarci al “pensiero unico” propinato dai media principali come quello oscenamente legato alla falsa retorica sul “debito pubblico” in economia?

Per non parlare del “pensiero unico” relativo ad ogni ambito di interesse sociale in cui le lobby private hanno interesse di controllo e guadagno, come ad esempio, e facciamo solo due casi, per le vaccinazioni di massa e la sanità in generale, e per l’intromissione nell’educazione sessuale da trattare a scuola in vista dell’uomo asessuato del futuro che potrà scegliersi a piacimento bambini creati in laboratorio?

Per non parlare del “pensiero unico” che vede la “scienza”, anche se sarebbe meglio dire lo “scientismo” assurgere a nuovo “dio” da adorare, a prevalere sugli altri saperi e culture mentre permette un sempre più raffinato e intimo controllo da parte del “sistema” sulle nostre vite?

Dovremmo trattare ogni altro canale di informazione con una censura degna di altri tempi?

Evidentemente sì: venerdì scorso il premier Conte ha co-firmato in sede europea una direttiva illiberale sull’informazione, in vista delle prossime elezioni europee: il passo dal pretendere di essere “l’avvocato degli italiani” all’essere avvocato del sistema lobbistico è, evidentemente, assai breve.

Veniamo ora al terzo articolo, il più profondo e impegnativo dei tre, è del 6 maggio scorso sull’inserto “Lettura”, sempre del Corriere, a firma dello storico Marcello Flores: “IL FALLIMENTO DEI DIRITTI UMANI. Lo studioso americano Samuel Moyn accusa di scarsa attenzione verso la giustizia sociale coloro che si battono per le libertà civili. A suo avviso hanno accettato l’aumento delle disuguaglianze che oggi alimenta il populismo autoritario. Ma forse pretende troppo da chi comunque svolge un ruolo positivo”.

L’articolo fa in prevalenza riferimento ad un libro dello storico e giurista Samuel Moyn, “Not Enough. Human Rights in an Unequal World” (Non abbastanza. I diritti umani in un mondo disuguale).

Oltre alla profondità, anche l’impostazione dell’articolo sembra più interessante dei precedenti, dato che segnala con precisione lo squilibrio nell’occuparsi dei vari diritti da parte degli stessi presunti difensori.

Il titolo ad effetto comunque confonde, come per il primo articolo dobbiamo sottolineare che non si possono accusare con semplificazioni giornalistiche i diritti stessi della loro parziale difesa ed attuazione.

L’inizio fa subito vedere, ad ogni modo, che non si fanno sconti a nessuno, peccato non si evidenzi che su questo tema, aldilà della retorica, i predecessori di Trump non abbiano fatto veramente granché, anzi; comunque vediamo: “Da diversi anni i diritti umani sono sotto accusa, principalmente da parte di governi che si sentono troppo vincolati al rispetto di norme e valori che ritengono pongano limiti eccessivi alla propria libertà d’azione, l’unico ‘diritto’ che sentono fondamentale e inalienabile. Da Putin a Erdogan, da Trump a Xi Jinping, da Assad a Netanyahu, basta guardarsi attorno e ci si rende conto di come la cultura dei diritti umani, riconosciuta a parole da tutti, sia disattesa e vilipesa sempre più spesso”.

L’autore inizia poi a citare Moyn, che in un articolo del 23 aprile sulla crisi dei diritti umani, focalizzava “…il suo intervento – non a caso intitolato Come è fallito il movimento dei diritti umani – sulle responsabilità di chi avrebbe dovuto promuoverli e difenderli. Il movimento dei diritti umani avrebbe, infatti, ‘accompagnato’ le scelte economiche internazionali che hanno condotto alla crescita dei populismi e nazionalismi, perché – dopo aver raggiunto il massimo prestigio a partire dagli anni Novanta – si sarebbe inevitabilmente intrecciato con quel neoliberismo che imponeva nello stesso periodo il fondamentalismo di mercato, all’origine dei mali attuali”.

Questo è, tragicamente, assai vero: lo vediamo ampiamente con tutti i movimenti che nell’occuparsi dei diritti civili delle minoranze o del Terzo Mondo, “dimenticano” di fare una grande campagna informativa sulle vere cause della fame, della povertà e delle feroci ingiustizie: cause da far risalire, in prevalenza, all’Occidente ed alle sue lobby, o all’azione di Paesi e corporation con cui l’Occidente continua ad intessere relazioni, permettendo a questi soggetti di operare nei propri territori, indifferente anche alle difficoltà dei tessuti produttivi interni troppo deboli di fronte a tali poteri economico-finanziari.

Lo vediamo inoltre, tragicamente, nelle politiche delle sinistre di governo occidentali che non spostano di un millimetro il sistema neoliberista: la paura di essere individuate dall’elettorato come prosecutrici degli orrori comunisti le ha fatte diventare, al pari dei “centristi” e delle destre di governo, salde paladine della finanza, delle banche e delle lobby che gestiscono le nostre morenti democrazie.

Più avanti nell’articolo Flores afferma che Moyn “Non crede che siano stati i diritti umani a favorire la crescita del neoliberismo, ma osserva che essi avevano costruito uno strumento troppo debole – la richiesta di risorse ‘sufficienti’ a superare la povertà – per contrastare la crescita delle disuguaglianze. … Secondo Moyn la scarsa attenzione ai diritti sociali risale agli anni Settanta, epoca della ‘rivoluzione dei diritti umani’, sorta quasi dal nulla, mentre alla fine della guerra fredda ‘la corrente principale del movimento internazionale dei diritti umani ha generalmente considerato una vasta zona di compatibilità tra i propri valori e quelli della globalizzazione’. Pur rifiutando di vedere nella cultura dei diritti una ‘lingua franca morale’ che avrebbe favorito i welfare nazionali e favorito il fondamentalismo di mercato, Moyn sostiene che essa sarebbe stata poco ambiziosa e inefficace di fronte ai successi del neoliberismo, di cui i diritti umani sarebbero diventati, senza volerlo, ‘compagni senza potere’. I diritti umani, in sostanza, avrebbero svolto – sul terreno cruciale dell’ingiustizia e disuguaglianza sociale – un ruolo ‘palliativo che accetta la permanenza di un male ricorrente senza affrontarlo frontalmente’”.

Concordo in pieno, a patto di non dimenticare che il soggetto “mancante” non sono i diritti umani in sé, come del resto ben evidenziato, ma il “movimento dei diritti umani”, in effetti un nome generico per definire un “sentire comune” di alcune tendenze della politica, sia negli anni Settanta sia Novanta: questo movimento non è stato veramente efficace, per un motivo o per l’altro, come ben analizzato in altre parti dell’articolo.

A queste riflessioni dobbiamo però aggiungere, a mio parere, che non si dovrebbe mai dimenticare che le mancanze primarie nell’attuazione dei diritti umani le dobbiamo ascrivere a tutti quei governi occidentali succedutisi dopo il 1948, che non hanno provveduto a mettere pienamente in pratica le raccomandazioni operative del Preambolo della Dichiarazione Universale, che abbiamo visto in precedenza.

Ciò avrebbe potuto significare un serio cambio di rotta per le politiche socio-economiche, ed impedire che un pur necessario e “sano” liberalismo si trasformasse nell’attuale atroce neoliberismo.

Comunque, se le principali mancanze sono da addebitare alle oligarchie di governo, quelle da ascrivere ai presunti difensori dei diritti sono, idealmente, ancor più gravi: questo perché avrebbero dovuto essere proprio loro a stimolare la politica a centrare il punto.

Ciò sembra essere assai chiaro per Moyn, che secondo Flores ritiene “… sia la mancanza di un più diretto impegno politico globale del movimento dei diritti umani a costituire una delle componenti del problema. … il vero movimento dei diritti umani sarebbe nato solo negli anni Settanta, come il risultato del fallimento delle utopie politiche radicali e rivoluzionarie del decennio precedente”.

Concordo in pieno, forse la “dimenticanza” di una fascia di diritti da rivendicare risiede proprio nella “rimozione” di tali diritti dalla prospettiva politica, dovuta al fallimento dei vari ideologizzati, soprattutto di sinistra: una resa al sistema economicista-liberista, ad un “realismo” che ha imposto una visione economica univoca, a ben vedere guidata dalla finanza, una visione probabilmente “comoda” per quegli ex-“rivoluzionari” che dagli anni Ottanta in poi andranno a conquistare posizioni sicure nei governi, nel parastato, nelle università, ecc.

Con la questione dei vari “ambiti” dei diritti umani e con un auspicio per il futuro si chiude l’articolo, questioni su cui ci sarebbe da dire qualcosa in più e fare dei doverosi distinguo.

Intanto vediamo il problema dei vari “settori” in cui si pretende suddividere i diritti umani.

Il movimento dei diritti umani, che conobbe negli anni Settanta e successivi uno sviluppo e una diffusione senza precedenti, ha in realtà una storia più articolata e contraddittoria. Più articolata perché parziale, e cioè finalizzata spesso a un settore soltanto dei diritti umani (libertà civili e politiche, conflitti armati e disastri naturali, salute ed educazione, ambiente e bioetica), in cui una battaglia lunga ha portato a risultati sorprendenti, che non possono mai essere dati per definitivi”.

Fermiamoci un attimo a commentare l’aspetto della “storia più articolata”, lasciando quella “contraddittoria” per una diversa riflessione.

Concordo senz’altro, come ho già detto, sul problema della divisione dei diritti umani, che per me è però anche contraddittoria: “dimenticare” i “diritti sociali” impedisce in vari modi la vera e completa attuazione degli altri, in primo luogo perché le persone che da sempre non riescono ad arrivare a fine mese difficilmente sviluppano interessi, cultura e sensibilità tali, da poter influire sull’attuazione degli altri diritti; difficilmente hanno il tempo necessario per poter capire cosa si sta giocando sulle loro teste, anche su altri fronti che non siano quelli del poter mangiare tutti i giorni.

I 4 diritti dell’uomo seguenti sono espliciti in tal senso, la loro non completa attuazione dovrebbe essere considerata un crimine, permessa da concetti economici fallaci e pretestuosi:

Articolo 22
Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.

Articolo 23
1. Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro ed alla protezione contro la disoccupazione.
2. Ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro.
3. Ogni individuo che lavora ha diritto ad una rimunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale.
4. Ogni individuo ha diritto di fondare dei sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi.

Articolo 24
Ogni individuo ha diritto al riposo ed allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite.

Articolo 25
1. Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, e alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà.
2. La maternità e l’infanzia hanno diritto a speciali cure ed assistenza. Tutti i bambini, nati nel matrimonio o fuori di esso, devono godere della stessa protezione sociale.

Il Flores sembra non vedere, comunque, alcune assolute parzialità, contraddittorietà e pericolosità presenti nei “risultati sorprendenti” che si sarebbero ottenuti: le libertà civili e politiche sono quanto di più incompleto si possa avere, data la sempre minore rappresentatività degli eletti, costretti da leggi elettorali astruse e antidemocratiche a “scegliere” rappresentati oltretutto spuntati da percorsi assai discutibili.

La finta pluralità delle campagne elettorali è un enorme problema democratico, aggravato dai particolari sistemi e “percorsi di formazione” da cui spuntano “magicamente” quelli che pretendono essere i rappresentanti del popolo e che vediamo di continuo in TV.

Riguardo ai “conflitti armati e disastri naturali” dobbiamo forse pensare che siano legittimi gli interventi armati americani, o coalizzati, mentre in altre sedi gli stessi soggetti contribuiscono ad armare il mondo, a volte gli stessi che poi andranno a combattere?

Non vogliamo proprio vedere i veri interessi economici, finanziari, strategici e di accaparramento di risorse che stanno dietro i cosiddetti “bombardamenti umanitari” che esporterebbero democrazia?

Riguardo ai “disastri naturali” e all’“ambiente”: certo, a volte la comunità mondiale si è mossa subito ed efficacemente, ma come la mettiamo con il fatto che non si tocchino le vere cause per cui un popolo non ha i mezzi per affrontare le calamità, per difendere il suo territorio?

Cosa diciamo dell’economicista Europa del “pareggio di bilancio” per il fatto che i suoi Stati non possono stamparsi le risorse necessarie a mettere in sicurezza i propri territori?

Non è una contraddizione il fatto che le politiche degli Stati, ormai ex-sovrani, non siano libere di determinare, sempre per la mancanza di risorse, una vera ed estesa ricerca di tecnologie e fonti alternative e di spostamenti più eco-compatibili?

Riguardo alla “salute ed educazione” ed alla “bioetica”: non vediamo che la sanità è, da un punto di vista culturale, definitivamente in mano ad una pretesa “scienza”, e praticamente all’industria farmaceutica privata, senza che nessuno possa dire qualcosa per le molteplici problematiche etiche e giuridiche?

Non si vede che questi fenomeni, se non contrastati culturalmente e giuridicamente, porteranno a spostare sempre più in là il confine di quanto eticamente permesso fare con la vita in ogni ambito, e per ogni problematica?

Cosa dire infine sull’educazione moderna, sempre più laicista, tecnicizzata, “evirata” dai suoi fondamenti umanistici, in mano a test e psicologie varie, gestita con diagnosi e sempre più psicofarmaci, infiltrata da concetti tendenti a ridefinire l’ambito sessuale?

Non vogliamo proprio vedere che dietro un uso ipocrita dei diritti umani si cela il “controllo tecnocratico” del futuro?

Il controllo di un uomo già “decostruito” e “ricostruito” in maniera apparentemente “liberale”, ma effettivamente “denudato” del suo passato e dei percorsi esperienziali e famigliari che ne hanno sino ad oggi determinato lo sviluppo?

Non è bastato all’uso ipocrita dei diritti umani perseguire una sempre più definitiva separazione del sesso dall’amore: il tassello successivo era, necessariamente, quello di favorire una cultura sessualizzata/asessuata completamente libera, dagli infiniti “gender” permessi dalla manomissione tecnica di un’identità psico-biologica già “precarizzata”, sin dall’infanzia.

Dobbiamo anche notare l’enorme cecità su questi fenomeni da parte di grandi porzioni della cultura: “abbacinate” dall’apparente libertà del futuro non ne vedono i rischi estremi, profeticamente evidenziate da matrici culturali e da autori evidentemente scomodi per il sistema di corporazioni private che sta determinando il nostro futuro: senza scomodare i grandi della filosofia e del pensiero, guardiamo ad Orwell ed Huxley, fra i più famosi e popolari.

Concludiamo con la parte “contraddittoria” accennata dal Flores, su cui sono completamente d’accordo, relativa alla storica diffusione dei diritti umani, che sarebbe “…contraddittoria perché la natura stessa delle due grandi famiglie di diritti (quelli civili e politici e quelli economici e sociali, che i giuristi hanno chiamato di prima e seconda generazione, oppure diritti negativi e diritti positivi) non permette una battaglia univoca e intrecciata, che spesso sono solo le forze politiche a poter svolgere assumendo in toto nel proprio programma la cultura dei diritti umani. L’inserimento dei diritti sociali in molte Costituzioni ha mostrato quanto possa essere difficile concretizzare la loro realizzazione, proprio per mancanza di un referente politico in grado di volerlo e poterlo fare. Che sia tempo di ripensare ai diritti umani in questa nuova fase storica è inevitabile”.

Scrivo da sempre sulla sempre più urgente necessità di costruire una nuova politica che “indossi” l’etica dei 30 diritti dell’uomo, aldilà e oltre le passate ideologie: come abbiamo visto ai 30 diritti non manca niente, a livello ideale, per costruire un’opportunità di futuro che non sia già scritto dalle corporazioni private, che hanno sinora avuto buon gioco nel preparare il nostro futuro.

Una nuova politica che dovrà essere culturalmente consapevole delle molteplici problematiche dovute alle violazioni di questi diritti, ed al futuro che ci aspetta se giustificheremo o non vedremo le violazioni insite nel futuro che si sta preparando.

Il mio modesto contributo in tal senso, oltre al programma politico linkato in basso, sarà un volume più completo sui diritti umani in cui integrerò il programma aggiornato con vari approfondimenti sugli aspetti brevemente tratteggiati in questo articolo, e su altri non meno importanti qui non menzionati, che sto affrontando anche in una serie di articoli sui 30 diritti che potete trovare proprio in questa sezione di ATTIVISMO.INFO.

Il lavoro da fare è grande ed esiziale, siamo tutti chiamati a prenderci responsabilità politica per il futuro di tutti, sarà anche il nostro.

 

Massimo Franceschini, 19 dicembre 2018

il mio libro, un programma politico ispirato ai diritti umani

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