Cosa significa tornare alla normalità?

di Peter J. Leithart

“La modernizzazione comporta accelerazioni multiple”, ci ha detto il sociologo tedesco Hartmut Rosa nel suo libro del 2010, Acceleration and Alienation.

Le tecnologie avanzate accelerano sia il movimento che la comunicazione e il “tasso di cambiamento tecnologico” aumenta con regolarità secondo la “Legge di Moore”.

Il cambiamento sociale è veloce, le mode e le tendenze vanno e vengono.

La vita quotidiana accelera il suo ritmo, ma al contempo manda in frantumi le speranze della modernità.

Molte “pratiche moderne” non possono funzionare secondo i “programmi della tecnologia” e, quindi, questa de-sincronizzazione ci lascia politicamente dislocati e psichicamente disorientati.

La modernità, ad esempio, promette un governo partecipativo.

Ma la vera democrazia richiede tempo, specialmente nelle moderne società pluraliste senza norme e convenzioni radicate.

Ironicamente, Rosa sostiene che: “Gli stessi processi che accelerano i cambiamenti sociali, culturali ed economici, rallentano al contempo la formazione della volontà democratica e il processo decisionale”.

La politica non può governare il cambiamento sociale perché non può stare al passo con la tecnologia che lo guida.

Questa è una delle fonti del caos nella nostra politica.

Guidati freneticamente dal tempo tecnologizzato, non ci prendiamo (non possiamo farlo!) il tempo di ascoltarci l’un l’altro.

Non abbiamo tempo per andare al fondo dei nostri disaccordi, tanto meno risolverli.

L’accelerazione si scontra anche con la “promessa di libertà” portata dalla modernità.

C’è una tensione intrinseca nella libertà moderna anche lasciando l’accelerazione fuori dal quadro.

Da un lato abbiamo molta più libertà di scelta rispetto alle civiltà passate. Dall’altro, le società moderne sono diventate interdipendenti a un livello senza precedenti.

Le nostre complesse reti di dipendenza devono essere coordinate, ma la coordinazione inibisce la libertà di scelta e di azione.

Aggiungete l’accelerazione resa possibile dalle tecnologie della comunicazione e del trasporto e la tensione s’intensifica.

Seppur tecnicamente liberi, “Ci sentiamo completamente dominati da una lista sempre crescente ed eccessiva di richieste sociali”.

Nonostante i dispositivi salva-tempo, non riusciamo a tenere il passo. Sentiamo di averne meno che mai.

Mangiamo più velocemente, dormiamo sempre di meno e comunichiamo meno spesso con le famiglie e i vicini rispetto alle generazioni passate.

Di conseguenza, non sperimentiamo più la libertà, quella vera.

Rosa così scrive: “In nessun luogo al di fuori del regno della modernità occidentale le azioni quotidiane sono così coerentemente giustificate dalla retorica del ‘dovere’.

Legittimiamo sempre a noi stessi e agli altri ciò che facciamo in riferimento a qualche richiesta esterna: ‘Devo proprio andare al lavoro; devo proprio compilare il modulo delle tasse; devo fare qualcosa per la mia forma fisica; devo imparare una lingua straniera, devo rinnovare il mio hard–software, devo tenermi aggiornato con le notizie’”.

Quando lo stress diventa insopportabile, decidiamo di “doverci” prendere una vacanza. Siamo schiavi degli imperativi di un programma guidato dalla tecnologia.

Ho letto il libro di Rosa la scorsa primavera, in un lungo pomeriggio d’isolamento.

Lo scontro tra la tesi di Rosa e la mia specifica circostanza era drammatico, ma mi ha lasciato un barlume di speranza: “Forse, la pandemia ci darà la possibilità di vivere abbastanza lentamente per accorgerci del resto del mondo, per poterlo contemplare”.

Nella modernità che viaggia a “velocità di curvatura”, la contemplazione sembra un lusso, al più un’attività di svago … e questo è un errore.

Come osserva Byung-Chul Han in The Burnout Society , la civiltà umana non esisterebbe senza “una profonda attenzione contemplativa”.

Nella contemplazione, usciamo da noi stessi per immergerci nell’ambiente circostante.

La “noia e l’ozio profondo” sono le sorgenti della creatività.

Perché ci chiediamo “come sono fatte le cose”, una meraviglia che “non ha niente a che vedere con la praticità o la processualità” e che ha portato frutti copiosi nell’arte, nella danza, nella musica e nella filosofia.

La contemplazione ci apre al ricordo di Dio.

Han sostiene che, nella modernità accelerata, viviamo in un trambusto di “iper–attenzione”, spostandola costantemente “… tra i nostri diversi compiti, tra le fonti d’informazione e i processi che caratterizzano questa modalità di consapevolezza”.

Pensiamo di essere creativi, ma la velocità della vita rende impossibile una vera creatività: “La corsa frenetica non produce nulla di nuovo”.

Molto tempo fa, Nietzsche suggerì che la civiltà moderna soffrisse di una “mancanza di riposo” che ci avrebbe portato verso una “nuova barbarie”.

Mai, prima d’ora, “… gli attivi, ovvero gli inquieti, hanno contato di più”.

Uno dei nostri più grandi bisogni è “… un considerevole rafforzamento dell’elemento contemplativo”.

Sarò cinico ma sospetto che, ora che Biden è al sicuro dentro la Casa Bianca, vedremo un rapido ritorno alla normalità.

Il 2020 ci ha dato un assaggio del tempo rallentato, “non moderno” e, forse, possiamo imparare ad assaporarlo.

Possiamo rallentare un po’ la nostra vita per stare con gli amici e con la famiglia, per cenare insieme, per leggere una storia ai nostri figli o per giocare con loro in cortile, per pregare e cantare, per guardare e ascoltare.

Possiamo scegliere di rallentare le nostre Istituzioni — le nostre scuole, il nostro giornalismo, le nostre battaglie politiche, i nostri incontri di preghiera e le nostre liturgie.

Potremmo aver imparato che il tempo che abbiamo vissuto sia più normale della frenesia che caratterizza la nostra modernità.


Tratto da: https://www.firstthings.com/web-exclusives/2021/01/what-does-back-to-normal-mean

Traduzione a cura del blog Mittdolcino: https://www.mittdolcino.com/2021/01/30/cosa-significa-tornare-alla-normalita/

Lascia un commento