Veduta di Delft

di Claudio Vitagliano

Abbiamo da sempre, noi estimatori di Vermeer, tentato di decifrare il nostro sentire nei confronti della “Veduta di Delft”. Porsi davanti al dipinto, non è un esercizio di semplice fruizione, ma rappresenta piuttosto una lotta di pulsioni turbolente che cozzano contro il raziocinio. Fatto sta che ogni volta che guardiamo l’opera di Vermeer, abbiamo l’impressione di essere posseduti da una sorta di vacillamento della ragione; una misteriosa ma comunque benigna sindrome di Stendhal.
Come sappiamo però, il desiderio di dominare le istanze profonde dell’inconscio, sono nell’uomo insopprimibili. Di conseguenza anche nel rapporto con l’arte, crediamo di poter capovolgere la relazione tra la razionalità e l’io profondo. Ci adoperiamo quindi per dominare l’influsso selvaggio che l’arte emana, piuttosto che esserne dominati.
Tentiamo insomma di mettere distanza tra la nostra lucidità e le sabbie mobili del pensiero speculativo.
Nel tentativo di addomesticare il pathos e ricondurlo ad una cifra che rientri nel lembo della leggibilità raziocinante, l’unica possibilità è quella di svelare l’opera in tutta la sua evidenza materiale, storica, morale ecc…
Un po’ come quando idealizziamo l’amore verso la donna dei nostri sogni,per poi renderci conto, una volta conosciuta in tutta la sua umanità, che non ha nulla di celestiale, risultando quindi meno inavvicinabile.
Questa è un’operazione che si può fare ricorrendo a studi di vario genere.

Nel caso della Veduta, ci siamo imbattuti ad esempio in uno studio svolto da Donald Olson della Texas State University, fisico ed astronomo e che ha fatto ricorso ad un metodo denominato “Astronomia forense” e a ricerche storiche svolte nel comune stesso di Delft.
Egli ha dimostrato con una certa precisione alcuni dati che potrebbero rispondere a domande che ci facciamo da sempre su alcune scelte di Vermeer riguardo alla veduta: l’ora del giorno in cui è ambientato il quadro,la posizione precisa scelta come postazione, l’anno di esecuzione, ecc…
Sappiamo quindi che il dipinto è stato portato a termine tra la tarda primavera e l’inizio dell’estate del 1659 e non  nel 1660.
Si è arrivati con un certo grado di sicurezza a stabilire l’ora in cui è ambientato il quadro,cioè intorno alle 8 del mattino. Tale scelta, molto probabilmente fu fatta per poter ottenere l’effetto della luce caratteristica di tutta l’opera dell’artista. Mentre il posizionamento era da Sud verso Nord al di qua del fiume Schia.
Sappiamo che nell’opera, non tutto collima esattamente con la realtà del luogo, poiché essendo Vermeer molto lento nell’esecuzione, alcune cose sono state cambiate rispetto al modello, forse per intenti scenografici, forse per l’impossibilità di poter avere per il tempo necessario, condizioni climatiche e di ambientazione sempre uguali nel lungo termine.
Sappiamo che il quadro è citato nell’inventario della vendita d’asta della collezione Dissius di Amsterdam del 16 Maggio 1696 come “la città di Delft in prospettiva , vista da Sud di J. Van Der Meer.

Fu venduta a 200 fiorini.
Il dipinto si trova al Mauritshius dell’Aia.
“La Veduta di Delft” è l’unico paesaggio che Vermeer abbia dipinto insieme alla” Stradina di Delft”  In realtà ,di soggetti diversi dalle scene degli interni che costituiscono la quasi totalità della sua opera, oltre ai due paesaggi, ci sono altri tre dipinti ma di attribuzione incerta.
Alla luce dei dati sopra riportati, facciamoci quindi la seguente domanda: la conoscenza di dati oggettivi riguardanti un’opera d’arte e la veduta in particolare, può eliminare lo smarrimento che ci assale di fronte all’opera stessa?

Possiamo esercitare una critica distaccata, godere del dipinto, senza essere travolti dal tumulto interiore?
La risposta è no.
Certo, molto probabilmente il tentativo di ricondurre l’arte in un alveo raziocinante per meglio capirla e decifrarla, è destinato a fallire, tanto più se parliamo, come stiamo facendo di questo artista cosi singolare, anzi unico del 600 olandese e addirittura di tutta la storia dell’arte.
Ma la schiera di chi subisce il canto irresistibile della sirena chiamata “Veduta di Delft” è numerosissima.
A tal proposito penso a Proust che nel 1921, malato cronico, si rivolge cosi al suo amico Jean Louis Vaudoyer a cui chiede di accompagnarlo:”…non sono andato a dormire per recarmi a vedere questa mattina Vermeer ed Ingres”.
Ma ancor più indicativo dell’amore di Proust per il dipinto fu evidente quando decise di inserire tutta l’emotività che gliene derivava nella morte di Bergotte, personaggio della recherche.

Bergotte infatti, sosteneva che il dipinto, in un piccolo lembo di muro giallo, guardato attentamente, presentava una trama di bellezza inarrivabile. Mentre muore, formula questo monologo interiore: è cosi che avrei dovuto scrivere… i miei libri sono troppo secchi, avrei dovuto stendere più strati di colore, rendere la mia frase più preziosa in sé, come quel piccolo lembo di muro giallo. In realtà è come se in questa superficie di cm 96.5 x 115.7 si rispecchiasse tutto il mistero della bellezza dell’universo.
Volendo stabilire un parallelo con l’attualità, sotto l’aspetto pittorico e della poetica, potremmo stabilire un paragone con il realismo magico.
Ma naturalmente andiamo per approssimazione, molta approssimazione, perché sostenere questo accostamento fino in fondo, sarebbe un po, come voler mettere un raggio di sole in una limitata gabbia sintattica.
Riferendoci sempre alla contemporaneità ci verrebbe anche da pensare a De Chirico, per quella cristallizzazione del tempo e dell’atmosfera tipica del pittore italiano e che è tangibile nella veduta .Ma anche questo parallelo è più un tentativo di riportare alla nozione” storia” e quindi alla decifrazione forzata il mistero che avvolge Vermeer e la sua veduta, piuttosto che ad una reale possibilità di stabilire connessioni salde tra I due artisti.
Il dipinto è costruito come tutti I dipinti di Vermeer per essere vero, ma diviene subito finto, per tornare ad essere in un lampo, più bello del vero. La minuzia dei particolari dovrebbe dare adito ad una verosimiglianza fotografica, mentre si rovescia invece in un “vero”, diciamo cosi, sbagliato, che si trasforma in nostalgia metafisica della realtà.
La tesi di un Vermeer che travalica i limiti dell’attualità e delle istanze del suo tempo, per dialogare con l’infinito è sotto gli occhi di tutti, e non solo nella veduta ma in tutta la sua opera.
E’ chiaro che ogni suo dipinto è testimonianza della vita colta istantaneamente nel suo divenire e bloccata per sempre in questo passaggio; prima, durante e dopo che i nostri occhi si siano posati sulle sue tele.
Nell’epoca dei suoi più o meno coevi Rembrandt e Rubens che mettevano in pratica un’arte roboante e dai temi forti e mitologici, lui partendo dall’osservazione del quotidiano, ha prodotto tele sotto le quali,raschiando, troviamo appieno il senso dell’eternità, molto più che nei suoi contemporanei.

Molte domande resteranno sospese e senza risposta: perché le scene del quotidiano?, perché la scelta di una poetica cosi sommessa? Perché questo racconto silente senza mai un acuto?
Probabilmente tutto ciò resterà per sempre un mistero, come il fascino dell’opera di questo piccolo immenso artista.
Fascino che nella Veduta racchiuderà per sempre la sua versione più incredibile e potente.

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