Tutto quello che avreste voluto dire sul sesso (ma non oserete neanche pensare)

di Francesco Carraro

Immaginate un disegno di legge il cui primo articolo reciti così: “Per ‘virus’ si intende un agente patogeno infettivo”. Oppure così: “Per ‘mano’ si intende l’estremità dell’arto anteriore di una persona munita di cinque dita”. O, ancora, così: “Per ghiaccio si intende l’acqua allo stato solido”. Vi verrebbe da ridere? Be’, sappiate che non c’è nulla da ridere. Il disegno di legge Zan recita infatti: “Per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico”. Non fa ridere perché quando l’assurdo prende le forme del reale e il grottesco quelle del diritto positivo, allora è giunto davvero il momento di interrogarsi.

Perché siamo giunti al punto di aver bisogno di una legge che ci dica cosa è il sesso? Vale a dire, una delle nozioni più ovvie ed elementari? Risposta: perché il sesso deve smetterla di essere un fattore identitario. E infatti la legge si premura di “confinarlo” etichettandolo con due aggettivi: “biologico” e “anagrafico”. Quindi, esiste qualcosa di diverso dal sesso che però a quest’ultimo è strettamente imparentato: il “genere”. Non a caso, il genere viene definito al punto b) dell’articolo 1 come “qualunque (si badi bene: “qualunque”) manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso”.

Curioso come – in un’epoca ossessionata dalla verità, dalla scienza e dal fact-checking – venga licenziata una legge tutta basata sul cangiante, mutevole, soggettivo concetto di “percezione”. Eppure, il punto d) dell’articolo 1 ci dice proprio questo spiegandoci finalmente cosa sia il genere: “Per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere”. In pratica, si tratta delle demolizione, per via normativa, della verità “biologica” sul sesso: d’ora in poi, ci dice il legislatore, sarete maschi o femmine non in ragione del patrimonio genetico deciso dalla natura e constatato dalla scienza, ma così, a capocchia, in base a come vi “percepite”.

E ciò in virtù dell’operazione di alchimia semantica di un legislatore il quale ha deciso che c’è il “sesso” e c’è il “genere”. Una sottigliezza sociologica tradotta in norma. Quantomeno sorprendente, in un contesto in cui chi non dice la “verità” e non si adegua alla “scienza” rischia (per ora) la censura e forse (un domani) la galera. Ma questo sarebbe anche il meno. Il più, e il peggio, è che il DDL in questione vi ritaglia un piccolo spazio di libertà, con l’articolo 4, facendo salva la “libera espressione di convincimenti ed espressioni” (l’articolo 21 della Suprema Carta ringrazia per la menzione d’onore) “purchè non idonee a determinare il concreto pericolo di atti discriminatori e violenti”.

Capite quanto “concreto” diventa il rischio di finire incriminati con una clausola di salvezza di così perfida e ambigua vaghezza? Per fortuna siamo un popolo che “ha fiducia nella magistratura”. Per concludere, da qualsiasi parte lo si guardi (persino dalla parte di chi conduce sacrosante battaglie  contro le discriminazioni omofobiche), questo testo di legge somiglia un sacco alla filosofia del diritto di Orwell 1984. Quella dove il Grande Fratello  decide che “guerra è pace” e “schiavitù è libertà”.

Un altro passo verso la distruzione dei fattori di identità individuale (dopo quello nazionale e quello religioso). Un altro passo verso la irreggimentazione in chiave penale del pensiero: persino di quello concepito e palesato intorno a elementari verità biologiche e naturali. Il trionfo della società della “emozione” sulla civiltà della “ragione”. I cattivi maestri del totalitarismo d’antan festeggerebbero a caviale e champagne. E avrebbero pronto anche un bello slogan: “Puoi ‘sentirti’ ciò che vuoi, ma devi ‘pensare’ come vogliamo noi”.

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