TAV Torino-Lione – Le ragioni del NO: non conviene!

di Andrea Boitani, Marco Ponti e Francesco Ramella

Pubblicato il 16.04.2007 sul sito Brunoleonimedia.it

Premessa
Il dibattito pubblico che si trascina ormai da molti anni a proposito della opportunità
di realizzare o meno la linea ferroviaria ad alta velocità (o capacità come è stata ribattezzata
in un secondo tempo) tra Torino e Lione ha visto contrapposti i sostenitori
dell’opera, tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi quindici anni, la grande
maggioranza del mondo politico e di quello imprenditoriale e gli oppositori della cosiddetta
sinistra radicale nonché una parte significativa della popolazione residente
in Val Susa.

Sia i sostenitori della TAV che coloro che vi si oppongono sembrano peraltro concordare su un punto: che sia necessario destinare (ingenti) risorse pubbliche al fine di favorire il cosiddetto riequilibrio modale dalla strada alla ferrovia. I primi ritengono che tale obiettivo possa essere conseguito solo con la realizzazione della nuova linea mentre gli altri sono a favore di un ammodernamento della tratta esistente.
Scarso peso sembra finora aver avuto, sia sui mezzi di informazione sia nell’ambito del processo decisionale, una terza posizione, anch’essa scettica sulla realizzazione dell’opera ma di matrice molto diversa da quella degli ambientalisti e dei sindaci locali in quanto fondata sulla comparazione costi / benefici del progetto.
Questo paper intende illustrare tale posizione a partire dalla valutazione della fondatezza delle argomentazioni più spesso utilizzate dai sostenitori della TAV nonché di quella del “postulato” che accomuna i due gruppi di opinione.

A rileggere i giornali degli ultimi anni le dichiarazioni di esponenti politici e soggetti imprenditoriali a favore dell’opera certo non mancano. Si è sostenuto tra l’altro che: gli attuali collegamenti stradali e ferroviari del versante nordoccidentale delle Alpi siano ormai prossimi alla saturazione e, quindi, in assenza di interventi si raggiungerà presto una condizione di saturazione degli stessi ed il nostro Paese rischierebbe così di rimanere isolato dall’Europa; la realizzazione dell’infrastruttura costituirebbe una condizione imprescindibile per la crescita economica del nostro Paese ed in particolare per il nord-ovest; in assenza della Torino – Lione si avrebbero intollerabili ricadute
sotto il profilo ambientale.
Queste le opinioni che ampio spazio hanno avuto sui mezzi di informazione.
Vediamo i fatti.

 

La capacità delle infrastrutture esistenti
Sul versante nord-occidentale delle Alpi si trovano due collegamenti di tipo autostradale, uno lungo la Valle d’Aosta ed uno lungo la Val Susa che conducono rispettivamente al traforo del Monte Bianco e a quello del Fréjus, il primo aperto al traffico nel 1965 ed il secondo nel 1980. Lungo la Val Susa corre anche una linea ferroviaria che porta al traforo del Moncenisio, realizzata nel 1857-71 e profondamente rinnovata negli anni ottanta del Ventesimo secolo.
I trafori stradali del Monte Bianco e del Fréjus sono utilizzati intorno al 35% della capacità disponibile. Il traffico medio giornaliero è per entrambi i tunnel inferiore ai 5mila veicoli. Nel traforo del S. Gottardo transitavano nel 2001 in media 18mila veicoli (con una
percentuale più ridotta di mezzi pesanti). Da oltre dieci anni il traffico di mezzi pesanti nei due trafori è stabile (Figura 1). Nel periodo di chiusura del Monte Bianco, la quasi totalità dei mezzi pesanti ha utilizzato il Fréjus senza che si sia riscontrato alcun rilevante problema nella circolazione. La capacità della tratta transfrontaliera della linea ferroviaria è superiore ai 20 milioni di tonnellate (secondo uno studio commissionato dalla Regione Piemonte alcuni anni fa è verosimilmente vicina ai 30). Il traffico merci su ferrovia ha raggiunto un massimo intorno ai 10 milioni di tonnellate alcuni anni fa per poi diminuire drasticamente in concomitanza con i lavori di ammodernamento della
direttrice. Occorreranno molti decenni prima che la linea sia saturata (se mai lo sarà) (Figura 2).

 

La TAV come fattore determinante per la crescita economica dell’Italia ed in particolare del nord-ovest.
Il miglioramento dei collegamenti ferroviari con la Francia costituirebbe a detta di molti una condizione necessaria per il rilancio economico di una città “emarginata” come Torino che altrimenti rischierebbe di essere tagliata fuori dai grandi assi di comunicazione.
Ma è proprio così?
Il ruolo delle infrastrutture come fattore di competitività di un territorio è stato oggetto in passato di estensive analisi economiche. Vi sono studiosi che sottolineano l’importanza delle infrastrutture nel determinare la crescita di un distretto industriale, di una regione o di un Paese.
Altri economisti, al contrario, ritengono che la carenza di infrastrutture non costituisca un ostacolo rilevante per la crescita economica e portano a sostegno della loro tesi esempi di territori (ad esempio il nord-est dell’Italia) che hanno mostrato elevati tassi di crescita pur in presenza di una modesta dotazione di reti di trasporto e di elevati livelli di congestione.
L’accrescimento della offerta di infrastrutture e la conseguente riduzione dei tempi di trasporto può determinare, se il risparmio in termini di tempo e di costi variabili è superiore all’incremento dei costi fissi, una riduzione dei costi totali di trasporto e, dunque, l’accrescimento della competitività di una data area.
Tale realtà risulta evidente nel caso di una dotazione di infrastrutture molto modesta: si pensi, ad esempio, ai risparmi di tempo conseguiti nei collegamenti fra Italia, Francia e Svizzera nell’ultimo scorcio dell’800 grazie alla realizzazione dei trafori del Fréjus (1871) e del Sempione (1906).
Il problema da porsi non è, dunque, se le infrastrutture abbiano un’utilità, ma se l’investimento in strade o ferrovie costituisca l’uso migliore delle limitate risorse a disposizione di un Paese.
A tal riguardo è forse utile porre a confronto la crescita economica recente di Francia e Germania e quella di Irlanda e Regno Unito, Paesi questi ultimi che si trovano in posizione geografica svantaggiata, dispongono di una rete di infrastrutture di livello quantitativo
e qualitativo inferiore – neppure un chilometro di linee ferroviarie ad alta velocità – e presentano un livello di spesa pubblica (non solo nel settore delle reti di trasporto) e pressione fiscale inferiore. Ebbene, l’evoluzione avvenuta nell’ultimo decennio mostra come la ricchezza procapite del Regno Unito e dell’Irlanda, che nel 1995 era inferiore a quella dei due Paesi dell’Europa continentale, si attesti oggi su
valori largamente superiori (Figura 3).

Per quanto riguarda specificamente la linea ferroviaria Torino – Lione occorre inoltre porre in evidenza come, a differenza di quanto avvenuto con la costruzione dei tunnel ferroviari a meta ottocento, la realizzazione dell’infrastruttura non comporterebbe alcuna
ricaduta positiva in termini di miglioramento dei collegamenti fra l’Italia e la Francia, fatta eccezione per un ridottissimo manipolo di passeggeri : come confermano le stesse analisi dei promotori dell’opera, la realizzazione della Tav non comporterebbe infatti alcun trasferimento di traffico merci dalla strada alla ferrovia (Tabella 1). L’ingente investimento, infatti, pur consentendo un miglioramento del livello di servizio del trasporto su ferro, non sarebbe tale da renderlo competitivo con quello su gomma.
Lo spostamento modale potrebbe avvenire solo imponendo divieti o tassando in misura elevata il traffico su strada: come si possano conciliare divieti e tasse ossia incrementi di costi per le aziende con il miglioramento della competitività economica del nostro Paese resta un mistero. L’introduzione di divieti o limitazioni al transito dei veicoli può anche essere interpretata come una chiusura, parziale o totale,
del tunnel stradale esistente ossia una misura che va nella direzione di un maggior isolamento dell’Italia rispetto all’Europa.
Non stupisce quindi che, stando alla analisi economica degli stessi promotori , i benefici complessivi attualizzati della linea ferroviaria Torino – Lione siano negativi, pari a – 2.378 milioni di euro (con tasso di attualizzazione del 5%; -3.734 con un tasso dell’8%).

 

La TAV per salvare l’ambiente?
Intervistato su La Stampa dello scorso 19 febbraio il Ministro Di Pietro ha affermato: “La Torino-Lione è l’opera che ci salverà. Non farla significherà buttare tutto il traffico sulle strade, con un impatto devastante per l’ambiente”. Curiosamente, la devastazione ambientale è lo stesso argomento portato dagli abitanti della Valsusa contro il progetto.
Ora, non è del tutto chiaro a cosa si riferiva il Ministro.
Per quanto concerne l’impatto della infrastruttura sul territorio, sembra evidente che il non fare sia preferibile al fare. E, anche nel caso si raddoppiasse il tunnel autostradale, la ricaduta sarebbe assai più limitata rispetto alla realizzazione della TAV: si tratterebbe di realizzare un traforo di 11 km invece che di 50 e non sarebbe necessario realizzare nuove opere lungo la Val Susa. L’autostrada esistente è infatti
largamente sottoutilizzata: vi transitano in media 12mila veicoli al giorno contro, ad esempio, i 34mila della Torino – Piacenza, tratta caratterizzata da traffico intenso ma lontana dalla saturazione. Non bisogna inoltre dimenticare che il Governo italiano e quello francese hanno già deciso di realizzare parallelamente al tunnel esistente un traforo di sicurezza. La costruzione di un tunnel aperto al transito commerciale invece che ai soli mezzi di soccorso avrebbe un impatto marginale assai modesto e comporterebbe benefici superiori in termini di sicurezza della circolazione (il costo marginale sarebbe dell’ordine di un decimo o forse meno del tunnel ferroviario e potrebbe essere
interamente sopportato dagli utenti dell’infrastruttura).

Il Ministro si riferiva forse all’inquinamento atmosferico? A tal riguardo si è espressa in termini più espliciti la Governatrice del Piemonte, Mercedes Bresso: “L’alta capacità ferroviaria Torino-Lione è un’opera essenziale per abbattere lo smog. L’ha ricordato l’Unione Europea: se non si sposteranno le merci su rotaia, sarà necessario raddoppiare le autostrade. Per abbassare il tasso di smog e la concentrazione delle PM10 – ha detto la presidente – è indispensabile realizzare un’infrastruttura ferroviaria che consenta di spostare gran parte del traffico di merci dalle strade alle ferrovie”.
Qualche numero: ogni giorno transitano nel traforo del Fréjus e sulla tratta autostradale Torino – Bardonecchia 2.300 veicoli pesanti. La percorrenza complessiva di questi mezzi è pari al 5% del traffico di veicoli pesanti sulle autostrade piemontesi ed a meno del 2% del traffico autostradale (assumendo l’equivalenza fra un veicolo pesante e due auto). Ipotizzando, prudenzialmente, che il traffico sulle autostrade rappresenti la metà di quello complessivo, si può stimare che azzerando il traffico merci verso la Francia si conseguirebbe una riduzione delle emissioni regionali inferiore all’1% (probabilmente meno dello 0,1% a scala nazionale). Quale possa essere l’impatto di tale riduzione
appare evidente. Non osiamo immaginare quante TAV occorrerebbe realizzare per “spostare gran parte del traffico merci dalle strade alle ferrovie”.
La situazione auspicata dalla Governatrice non trova peraltro riscontro, neppure lontanamente, in nessun Paese dell’Europa occidentale (percentuali “bulgare” di traffico su ferrovia si registravano, prima del 1989, nei Paesi dell’Est dove non risulta che la qualità dell’aria
fosse particolarmente buona).
Per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico occorre inoltre evidenziare come, ipotizzando che tra il 1990 ed il 2020 il traffico di mezzi pesanti verso la Francia triplichi – i dati ci dicono che da una decina d’anni è stabile – le emissioni totali di polveri si ridurrebbero
grazie al rinnovo del parco veicolare di oltre l’80% (è come se i 1.480 veicoli al giorno del 1990 si riducessero a meno di 300) (Figura 4).

 

L’impossibile riequilibrio modale
Come accennato in premessa, sia i sostenitori che gli oppositori della TAV si dicono favorevoli al riequilibrio modale dalla strada alla ferrovia, riequilibrio da conseguirsi destinando a tal fine ingenti risorse pubbliche per gli investimenti e per la copertura dei disavanzi di gestione del trasporto su ferro.
D’altra parte, a Bruxelles come a Berlino, a Londra. come Parigi o a Roma, è questo il principio che guida la politica di trasporti nei Paesi europei. Ma, per quanto seducente e quasi universalmente condivisa, l’idea sembra essere vagamente surreale.

È possibile innanzitutto constatare come non sia la prima volta che un singolo modo di trasporto assume un ruolo predominante nel soddisfare la mobilità delle persone e delle merci. Cento anni fa il ruolo egemone, oggi ricoperto dal trasporto su strada, era appannaggio
della ferrovia.
Come allora sarebbe stato inimmaginabile un riequilibrio modale fra il treno – modo di trasporto che consumava più risorse, più rumoroso e, forse, più inquinante – ed il cavallo, così è irrealistica la prospettiva di ridurre il traffico stradale in misura significativa sviluppando
e incentivando con l’utilizzo di risorse pubbliche la ferrovia.
Qualche numero e l’esperienza passata ci possono aiutare a capire perché.
Come scrive Christian Gerondeau (1996), già consigliere del Ministro dei trasporti francese, nel suo volume “I trasporti in Europa”, l’illusione di alleggerire il traffico stradale, tutto, agendo sulla circolazione dei mezzi pesanti, risulta evidente qualora si prendano in considerazione gli ordini di grandezza delle due realtà: in Europa occidentale i veicoli stradali, auto e veicoli pesanti, percorrono ogni anno complessivamente
oltre 3.000 miliardi di km (ogni veicolo pesante viene convenzionalmente equiparato a due autovetture). La distanza complessiva coperta dai carri merci sull’insieme delle reti ferroviarie assomma a circa 15 miliardi di km. Poiché ogni carro-merci può essere equiparato
ad un autocarro di categoria superiore e, come detto, quest’ultimo è equivalente a due autovetture si può stimare che il traffico ferroviario merci sia oggi pari a circa 30 miliardi di veicoli per chilometro pari all’1% di quello su strada. Pur in presenza di un raddoppio dello stesso, l’impatto sulla circolazione risulterebbe quindi del tutto marginale.

Inoltre, si sottolinea come la quota largamente maggioritaria del traffico pesante si sviluppa su distanze medio-brevi dove la differenza di competitività fra vettore stradale e ferroviario è più marcata. In Italia, ad esempio, il 78% del traffico pesante sulla rete gestita dalla società Autostrade ha origine e destinazione nella stessa regione: se si togliessero dalla strada tutti i Tir che percorrono tratte superiori ai 500 km,
la riduzione dei veicoli in transito risulterebbe pari allo 0,2%.
La marginalità del trasporto merci su ferrovia appare ancora più evidente in una prospettiva economica. Confetra ha elaborato alcuni anni addietro una stima della “fattura Italia” del trasporto merci. Ebbene, la spesa per il trasporto su strada, pari a circa 66miliardi di Euro rappresenta il 98% della spesa complessiva per i trasporti terrestri (Figura 5).
Quale che sia l’entità delle risorse pubbliche destinate al trasporto su ferro, non potrà esservi in futuro alcun riequilibrio modale significativo fra strada e ferrovia come non potrebbe esservi un riequilibrio fra vendite di personal computer e di macchine per scrivere o di dvd e videocassette. A meno che non si intervenga, al di fuori di qualsiasi logica economica come nel caso della Torino – Lione, imponendo un divieto alla vendita del bene di qualità superiore.

Conclusioni
Né le argomentazioni economiche né quelle ambientali a supporto della realizzazione della TAV sembrano dunque reggere alla prova dei fatti.
L’inesistenza di una domanda di trasporto, passeggeri e merci, tale da giustificare la realizzazione della linea AV trova riscontro nel fatto che non vi è alcun soggetto privato disposto ad investire proprie risorse nel progetto che sarebbe quindi interamente finanziato a carico del contribuente: la spesa per la tratta italiana della Tav, pari a 13 miliardi di Euro, equivarrebbe ad una una-tantum dell’ordine di 1.000 euro per una famiglia di quattro persone.
Tale constatazione non dovrebbe stupire se si pensa a quanto accaduto con il tunnel sotto la Manica (tra Parigi e Londra, non tra Torino e Lione) che, grazie soprattutto alla ferrea volontà di Margaret Thatcher, venne realizzato esclusivamente con fondi privati. Gli sfortunati risparmiatori francesi ed inglesi hanno visto nell’arco di un decennio quasi azzerarsi il valore del proprio investimento ma almeno in quel caso nessuno è stato obbligato a partecipare, in qualità di contribuente, ad un’avventura ad alto rischio.
D’altra parte non si vede perché dovrebbe essere realizzata con risorse della collettività un’opera che andrebbe a beneficiare quasi esclusivamente gli utilizzatori dell’infrastruttura considerato che i benefici indiretti in termini ambientali e di riduzione della congestione stradale sarebbero trascurabili.
Occorre infine sottolineare come l’idea pressoché universalmente condivisa secondo la quale sarebbe opportuno finanziare con risorse pubbliche un modo di trasporto relativamente meno inquinante oltre che inefficace risulta essere iniqua. Non si vede perché, infatti, dovrebbe essere il contribuente a pagare per ridurre l’inquinamento generato dagli spostamenti di coloro che si recano in Francia per turismo o per affari e dal trasferimento di merci da parte delle imprese che intrattengono rapporti commerciali con la Francia e l’Europa occidentale.

Risulta invece essere condivisibile la logica del “chi inquina paga” in base alla quale si potrebbe ipotizzare, ad esempio, una differenziazione dei pedaggi per gli autocarri in base alla tipologia di emissioni e la compensazione diretta con le risorse così acquisite dei soggetti danneggiati. Senza dimenticare che:
1) grazie all’evoluzione tecnologia, l’impatto ambientale del trasporto su strada si è già ridotto notevolmente rispetto al passato e tale evoluzione è destinata a proseguire in futuro;
2) secondo autorevoli studiosi (con qualche propensione ambientalista) l’attuale livello di tassazione che grava sul trasporto su gomma
è tale da compensare (o addirittura più che compensare) le esternalità ambientali sulle lunghe distanze (Parry e Small, 2002); al contrario, non c’è dubbio che il trasporto su ferro sia fortemente sussidiato, sia per quanto concerne gli investimenti che per le spese correnti.

È peraltro quanto meno dubbio che, tenendo in considerazione anche i consumi energetici relativi alla fase di costruzione, la TAV comporterebbe una riduzione complessiva delle emissioni di CO2 (che rappresenterebbe comunque una quota modestissima inferiore
allo 0,1% del totale a scala nazionale) rispetto allo scenario di non progetto .
Né la competitività del Paese, né la tutela dell’ambiente sembrano dunque essere motivazioni valide a sostegno della linea ad alta velocità tra Torino e Lione: restano gli argomenti di “imprenditori” che non vogliono rischiare e di politici in cerca di consenso a spese del contribuente. Da qui il nostro “no liberale”alla TAV.

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