Rimettere al centro i salari: l’economia di Bernard Lonergan

di Gilberto Serravalli e Alberto Schena

Bernard Lonergan (1904-1984) fu un grande teologo che si occupò anche di economia allo scopo di ricavare principi morali dalle sue meccaniche. Il suo contributo in questo campo resta tuttavia oscuro nonostante molte presentazioni, rimaste su un terreno prevalentemente celebrativo. In questo articolo, sintesi di un più ampio lavoro, si sottolinea l’affinità di tale contributo con analisi neokeynesiane, e se ne dà un’applicazione con al centro il nesso tra distribuzione del reddito e crescita. Il pensiero economico
del teologo, elaborato negli anni ’40 e ripreso nei ’70 del secolo scorso, è così utile anche in epoca di globalizzazione. La sua riscoperta potrebbe collocarlo tra le voci controcorrente che oggi per i paesi avanzati prospettano una ‘via alta’ allo sviluppo nonostante la concorrenza dei paesi emergenti.


L’irrompere sul mercato internazionale di grandi paesi emergenti con i loro milioni di nuovi produttori poco pagati poteva essere affrontato mediante l’innovazione tecnica e organizzativa, competendo non sui prezzi ma sulla qualità e novità delle produzioni, che sarebbero state spinte e sostenute da salari più alti.
Invece si è imboccata spesso, e specie in Italia, la “via bassa”, quella della riduzione dei costi attraverso la riduzione dei salari.
Vi hanno contribuito atteggiamenti di imprenditori e politici (Milberg e Houston, 2007) e anche fortunati bestseller, come il libro del 2005 di Thomas Friedman, The World is Flat, in cui la globalizzazione è vista come un processo che rende tutto mobile e insicuro sicché “il singolo
lavoratore sarà sempre più chiamato a gestire individualmente la sua carriera, i suoi rischi, la sua sicurezza economica, e il compito del governo e delle imprese sarà quello di aiutarlo a farsi i muscoli a questo scopo” (Friedman, 2005, p. 190).

Gli economisti, preoccupati di difendere il libero scambio e lo sviluppo del commercio internazionale nel quale tutti possono guadagnare, hanno in genere sottolineato che il mondo non è per nulla piatto e restano forti le economie di prossimità tecnologica e anche spaziale. Rimangono tuttavia diffuse le posizioni che vedono una relazione tra crescita e distribuzione del reddito per cui è la prima che determina o è contemporanea alla seconda. Che l’aumento dei salari e l’egualitarismo siano importanti leve di sviluppo è acquisizione abbastanza recente e
contrastata (Boggio e Seravalli, 2015, pp. 27 ss.); per questo assume particolare valore il pensiero economico di Lonergan elaborato diversi decenni or sono.

1. Un punto di partenza
Bernard J.F. Lonergan S.J. (1904-1984), che scrisse anche di economia, è collocato tra i più grandi pensatori cattolici del Novecento per i suoi contributi tra teologia e scienza moderna.
Le opere più note e studiate sono il monumentale Insight: A Study of Human Understanding e Method in Theology.
Le opere economiche restano invece trascurate e oscure essendo i commentatori rimasti su un terreno più ‘celebrativo’ che esplicativo.
Per fare meglio, un buon punto di partenza è il mancato apprezzamento degli economisti ai quali “aveva fatto conoscere i risultati del suo lavoro […], riscuotendo poca o nessuna considerazione” (MD, p. xl).
Questa circostanza suggerisce due distinte letture del fatto in sé e dell’intero significato dell’opera economica del teologo, distinte non perché siano distanti, ma per meglio comprenderle nella loro connessione.
Da una parte, vi è il respiro di una “economia teologica” fondata nel trascendente, che gli economisti possono aver considerato estranea al campo delle loro competenze.
Dall’altra, si può considerare Lonergan un vero e proprio economista, individuando le difficoltà di ascolto in formulazioni personali. Queste, tuttavia, possono essere decifrate – anche con l’aiuto della teoria economica attuale – per trovare i principi da applicare con “intelligenza e responsabilità” da parte degli agenti economici, che non sono però regole o formule definite: “L’uomo non sta fuori dalla […] macchina; egli è parte di essa; […] ne segue che non vi è possibilità di mettere per iscritto metodicamente da una parte le esigenze della macchina e dall’altra la conseguente azione dell’uomo” (NPE, p. 163).
Consideriamo dunque questa prima lettura, Lonergan economista, per mettere in luce tali principi e vedere poi, nel quarto paragrafo, che si possono intendere come specificazioni di orientamenti generali, coerenti con i fondamenti del suo pensiero.

2. Prima lettura: Lonergan economista
Di fronte alle già richiamate difficoltà, i diversi contributi dei commentatori hanno soprattutto insistito sulla distanza di Lonergan dal pensiero economico, distanza considerata altrettanto radicale e meritevole quanto generale, e tale da rendere in sostanza vana l’idea di superarla.
Tuttavia è proponibile anche un diverso approccio, che consiste proprio nell’ ‘armeggiare’ con i modelli (attualmente) esistenti. Oggi, infatti, è disponibile un’“adeguata analisi macroeconomica dinamica” del tipo proposto da Lonergan, sviluppata tra l’altro in sintonia con concezioni ecologiche, un suo tratto caratteristico.
Su tale base si propone una lettura in nove passi dell’economia di Lonergan che sono così schematizzati:

Il primo passo, “i motori della crescita”, introduce la prospettiva lonerganiana che guarda all’andamento nel tempo dell’intero sistema economico, distinguendo il breve dal lungo periodo, nel quale si hanno fasi cicliche, ma più ampie delle congiunturali.
In particolare, se il sistema può rendere di più nel breve periodo sulla base della capacità produttiva esistente e della domanda effettiva (come in Keynes), per Lonergan è invece più rigido nel lungo, quando tale capacità deve essere potenziata rispettando ineluttabili ritardi tecnici tra accumulazione del capitale e suoi frutti in termini di accresciuta produzione finalizzata al benessere.

La seconda tappa è quindi dedicata alla struttura del sistema produttivo, che Lonergan vede fondamentalmente articolato in due settori, uno “di base”, che produce beni di consumo, e l’altro “di surplus”, che produce beni capitali, affiancati da un centro finanziario. Concepito per ora il centro finanziario come “una fonte di maggiori quantità di moneta per le espansioni e un rifugio per la moneta durante le contrazioni”, ma non ancora pienamente integrato (NPE, p. 317), in questo primo accostamento si esamina l’avvio del ciclo.
Questo è per Lonergan, come in Joseph Alois Schumpeter, di natura tecnico-industriale, dovuto cioè a “nuove idee e […] loro pratica implementazione” con la “introduzione di un numero maggiore e di più efficienti unità produttive” (MD, pp. 35-36).
Tale congettura trova riscontro nella realtà, come si vede nella figura 1, che presenta la correlazionetra crescita dello stock dei brevetti industriali negli USA in rapporto al numero di abitanti (innovazione) e crescita del PIL pro capite; e permette di circoscrivere i periodi in cui la crescita economica è stata notevolmente minore dell’innovazione (nei vent’anni che hanno al centro la guerra civile, quelli della grande crisi, la recente grande recessione), e i periodi nei quali è stata notevolmente maggiore: gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale e gli anni ’80.

Figura 1 – USA: Crescita del PIL pro capite (medie decennali) e dei brevetti industriali in essere
pro capite (medie mobili triennali)

Per Lonergan, come per Clément Juglar (1862), l’avvio del ciclo di lungo periodo è permesso dall’offerta da parte del “centro finanziario” di nuovi mezzi di pagamento (MD, p. 77).
Alla fase espansiva, in cui avviene la costruzione di nuova capacità di produzione data dai nuovi beni capitali, dovrebbe poi seguire, con preciso tempismo, la fase del loro utilizzo in termini di crescita della domanda di beni di consumo, mentre la stessa espansione tende a creare le condizioni, compresa l’offerta di mezzi di pagamento, per una prosecuzione della produzione di beni capitali oltre la possibilità del loro impiego, e/o per eccessi speculativi.
Questa difficoltà viene in seguito ripresa e ulteriormente precisata da Lonergan. Per ora si ha un primo risultato: il suo sistema è tendenzialmente instabile. In proposito si osserva che anche l’economia neoclassica della crescita era giunta negli anni ’60 del Novecento a dimostrare l’instabilità di un sistema a due settori analoghi a quelli di Lonergan.
Non era dunque inesplorato il primo ostacolo che aveva individuato per un’ordinata dinamica economica, quello della intrinseca
instabilità di un sistema a due settori di cui uno produce i beni capitali durevoli che servono ad entrambi.

La soluzione trovata dall’economia neoclassica, che permetteva di giungere alla stabilità, stava in un’elevata elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro nel settore dei beni di consumo. Ma questa soluzione era possibile solo assumendo la remunerazione dei fattori
produttivi secondo le loro produttività marginali senza alcun “residuo”, che era respinta da una teoria alternativa, più realistica e più “utile”, come sottolineato nella celebre rassegna del 1964 da Hahn e Matthews.
Questa teoria alternativa, introdotta da Wicksell ([1898] 1962), Schumpeter ([1912] 1959), Robertson (1926), Keynes (1930), si distingue dalla neoclassica per due differenze, come insegnato da Graziani (1994): a una teoria alternativa della distribuzione del reddito fondata sul concetto di sovrappiù (“surplus puro” per Lonergan), affianca l’attribuzione di specifiche strategie, storicamente determinate, ai gruppi sociali, alle organizzazioni e istituzioni.
In Lonergan possiamo trovare entrambe queste due assunzioni.
Il terzo passo del ragionamento sarà perciò dedicato alla distribuzione del reddito e il quarto alla “questione degli agenti”, che permetterà di introdurre la completa integrazione del centro finanziario di Lonergan nel sistema produttivo e di evidenziare in tal modo il secondo ostacolo
sulla strada di un’ordinata dinamica economica, ossia la “fragilità finanziaria” quando la distribuzione del reddito non viene resa adeguata. Nella terza tappa, “ciclo e distribuzione del reddito”, si osserva che la teoria neoclassica, che non ammette alcun residuo invece essenziale
in Lonergan, assume che, tanto maggiore è il tasso di profitto in relazione al salario, tanto minore sarà l’intensità capitalistica della produzione, mentre in Lonergan è vero l’opposto. In questo modo si perviene a un’ulteriore rilevante conclusione.

Per Lonergan l’avvio della fase espansiva di un ciclo lungo, dovuto al progresso tecnico-industriale e permesso da maggiore offerta di moneta rispetto alla condizione statica, può prolungarsi fino a diventare insostenibile proprio perché, aumentando l’intensità capitalistica dei processi produttivi, aumenta anche il tasso di profitto.
Ne segue che, per Lonergan, la questione della distribuzione del reddito è al cuore del problema centrale che deve essere superato dagli agenti per una ordinata dinamica economica.
Occorre dunque esaminare a questo punto “la questione degli agenti”, il quarto passo, e presentare l’operazione qui tentata e riuscita di tradurre lo schema di Lonergan in quello della teoria monetaria della produzione. La conseguenza è decisiva.
Come per la teoria monetaria della produzione, anche per Lonergan l’offerta di mezzi di pagamento da parte di un centro finanziario “pienamente integrato” è “endogena”; si adegua cioè ai piani degli agenti. Ne discende che il sistema finanziario è strutturalmente “fragile”, come spiegato da Hyman Minsky fin dal 1963.
Si apre così la strada per cogliere quali siano in positivo le modalità (non automatiche) per dare stabilità al sistema economico e quali più precisamente gli ostacoli che possono provocare derive rovinose.
Seguono perciò il quinto passo “agenti e distribuzione del reddito”, il sesto “crisi finanziarie” e il settimo “economia come ecologia”, in cui si tirano le fila del ragionamento.

Nel quinto passo si considera la soluzione, vista da Lonergan come passaggio dalla fase “inegualitaria” del ciclo, in cui aumenta la quota profitti, a quella “egualitaria”, in cui aumenta la quota salari, prima di giungere al punto di massima accumulazione del capitale
(MD, pp. 150, 162).
Si può ritenere vi sia proprio questo alla base della sua affermazione: “non ci sono meccanismi capaci di condurre a un tranquillo ed equo rovesciamento in senso egualitario della distribuzione del reddito” (MD, p. 153).
Tale inversione dovrebbe infatti avvenire mentre lo stock del capitale sta ancora crescendo (e anche i profitti), cioè mentre “gli imprenditori restano convinti del loro successo come crescente potere e prestigio sociali”(ibidem).
Tuttavia se essi non permettono al salario di aumentare proprio a quel punto, dovrà allora ridursi il reddito prodotto, così che “l’inversione egualitaria si otterrà solo attraverso la contrazione, le liquidazioni, le cieche tensioni di una prolungata depressione” (MD, pp. 153-
154). Esiste tuttavia un “palliativo” nello schema di Lonergan, e nei modelli della teoria monetaria della produzione, che può (provvisoriamente) evitare questo esito disastroso, e sta nel carattere endogeno dell’offerta di mezzi di pagamento. Quello che non viene dato in salari può essere dato alle famiglie in termini di prestiti per sostenerne i consumi “oltre le loro possibilità”.

Nel sesto passo si sottolinea che questo può portare a crisi finanziarie perché i debiti delle famiglie, in linea di principio sostenibili in vista di redditi futuri (e se la macroeconomia fosse solo la somma di eventi e processi microeconomici), diventano insostenibili quando le attese sono date dallo stato del macrosistema.
Nel settimo passo, “economia come ecologia”, si conclude quindi il ragionamento, salvo la postilla contenuta nell’ottavo (“obiezioni”). Si osserva, prima di tutto, che per “chiudere” il modello di Keynes-Godley-Minsky, alla base della attuale “adeguata analisi macroeconomica dinamica” sovrapponibile a quella di Lonergan, si rivelano essenziali le fluttuazioni cicliche “regolari” di Goodwin analoghe a quelle del ciclo
“puro” di Lonergan, che richiedono, per non diventare degeneri, un’adeguata regola distributiva tra salari e profitti: una regola ecologica (MD, p. 93).
Ne segue un equilibrio dinamico stabile: equilibrio, perché entrambe le quote risalgono dopo che sono scese e scendono dopo che sono salite; stabile, perché sono escluse derive rovinose.
Si può allora precisare quale sia per Lonergan il principio da applicare da parte di agenti economici “intelligenti e responsabili”. Occorre che la parte imprenditoriale utilizzi le fasi favorevoli per investire nel rafforzamento della propria capacità di pagare maggiori salari, non
dandosi alla speculazione finanziaria, e occorre che li aumenti appena possibile considerando il potere contrattuale dei lavori un necessario presidio a questo scopo e non una prevaricazione.
E, insieme, occorre che la contro parte non pretenda una quota troppo alta del dividendo sociale tale da bloccare la crescita degli investimenti e occorre che i lavoratori impieghino i maggiori salari in modo produttivo, e non in consumi “improduttivi”.
È il principio di un’economia come ecologia, “un insieme di insiemi di schemi di ricorrenza che, come interdipendenti, si sostengono a vicenda” (MD, p. 93), come scrisse Lonergan.

Nella seconda parte, “tra economia e teologia”, si vedrà che si tratta davvero di una specificazione del principio generale come necessaria complementarietà di creatività (profitti e investimenti) e inclusione (salari e consumi).
La postilla (ottavo passo) riguarda il fatto che tutto quanto precede, elaborato assumendo un’economia chiusa agli scambi esteri e senza settore pubblico, potrebbe essere vanificato rimuovendo questa assunzione.
Come precisa Lonergan (NPE, pp. 321-328, 85-148, MD, pp. 174, 175, 129), in linea di principio scambi con l’estero, spesa pubblica in deficit e fiscalità redistributiva sincronizzati alle esigenze interne potrebbero sostituire l’adeguamento al ciclo della distribuzione del reddito decisa dagli agenti privati.
Tuttavia nelle economie moderne questa possibilità è nei fatti irrealistica o controproducente. Non si possono manovrare a propria discrezione i conti esteri come avveniva nell’imperialismo coloniale e, secondo Lonergan, non si possono comprimere salari e consumi privati oltre un certo limite, mentre non si possono caricare di imposte imprese che non sono in grado di pagare.

Nel nono e ultimo passo ci si domanda – infine – se queste idee possano servire a qualcosa e si risponde che sono sorprendentemente utili perché, di fronte alle difficili vicende economiche contemporanee dei paesi industrializzati, pongono l’accento sulla distribuzione
del reddito, una prospettiva che, con nefaste conseguenze, appare scomparsa dall’orizzonte della politica e della politica economica e sociale: un problema grave, anzi il più grave.

 

Tratto da:
Seravalli G., Schena A. (2018), “Rimettere al centro i salari: l’economia di Bernard Lonergan S.J.”, Moneta e Credito, 71 (283)
https://ojs.uniroma1.it/index.php/monetaecredito/article/view/14434

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