POLITICA E DIRITTI UMANI: NIENTE DI BUONO DALLE IDEOLOGIE

Dobbiamo capire per cosa valga la pena lottare

 

Ho sempre affermato la necessità di una nuova stagione politica sganciata dalle ideologie novecentesche, una politica finalmente in grado di liberarsi, di “librarsi” sui molteplici condizionamenti di interesse ove impossibili da far convivere, per rinnovare lo spirito del suo stesso nome, la sua reale missione: l’arte del governare.

Per fare ciò penso sia necessaria l’adozione di una “semplice” e razionale politica ispirata ai valori più alti, universali e universalmente riconosciuti: i 30 articoli della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo.

Credo basti leggerli per capire come quei 30 ideali diano corpo a un’etica civile in grado di sostenere, se veramente attuata, delle politiche sociali capaci di dare vero progresso, pace, tranquillità e giustizia in questo mondo sempre più esposto alle manovre/crisi della finanza e avviato al più che prevedibile dominio tecnocratico, statale o privato che sia.

Per arrivare al senso del titolo di questo articolo dobbiamo semplicemente osservare quanto grandi sono le difficoltà che incontrano i diritti umani, nonostante facciano parte del lessico di molti politici.

Difficoltà, in primis, del tutto “politiche”: le destre più estreme generalmente non ne fanno menzione, le destre “di governo” li usano ipocritamente per sostenere le “democratiche guerre” di occupazione made in USA, in “buona” compagnia dei “centristi”.

Le sinistre di governo sono sovrapponibili alle destre di governo per quanto riguarda le guerre democratiche, mentre fanno caso a sé le sinistre più radicali: si distinguono da quelle di governo sulle guerre imperialiste ma si comportano in modo del tutto particolare nell’affrontare l’argomento: intanto si uniscono alle sinistre di governo nel “dimenticare”, di fatto, l’esistenza di alcuni dei 30 articoli dalla chiara valenza “sociale”, cosa che al contrario sarebbe molto “di sinistra”; oltre a ciò, a ben vedere, contestano i diritti umani tout court, come vedremo però in seguito.

Le difficoltà relative ai diritti dell’uomo sono confermate, a mio parere, da un dibattito tutto interno alla sinistra avvenuto non molto tempo fa con due articoli sulla rivista MicroMega dove comunque, e fortunatamente, abbiamo una scrittrice, Cinzia Sciuto, molto più libera intellettualmente di quella che potremmo chiamare “sinistra mainstream”, pur rimanendo dichiaratamente, come mi par di capire, nel campo della sinistra.

Per le questioni che ritengo utili qui approfondire vedremo solo alcune delle tematiche discusse nei due articoli: il primo è del 29 novembre scorso ad opera di Lorenzo Cini e Niccolò Bertuzzi, entrambi sociologi della Scuola Normale Superiore di Pisa, dal titolo già eloquente: “CONTRO L’UNIVERSALISMO (DEBOLE) DEI DIRITTI UMANI. APPUNTI PER UNA NUOVA ‘POLITICA DI CLASSE’ IN ITALIA”.

Il giorno dopo la Sciuto (autrice di “Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo, Feltrinelli, 2018) rispondeva in maniera perentoria e centrata con “CHI HA PAURA DEI DIRITTI UMANI? UNA REPLICA”, mettendo subito in evidenza l’ambiguità dell’attacco dei due sociologi che non farebbero, a quanto afferma l’autrice, “un solo riferimento ad un contenuto del libro stesso e senza mai esplicitare nel corso della loro trattazione che quello di cui stanno parlando non si trova nel mio libro, si induce il lettore a pensare il contrario”.

La Sciuto mette subito in chiaro la questione centrale e le distanze con i due sociologi: “La prima parte della critica di Cini e Bertuzzi si rivolge alla concezione liberale classica dei diritti umani (o meglio: alla visione un po’ folkloristica e riduzionistica di questa concezione), rispetto alla quale il mio libro si propone come un’alternativa”.

Con questo passaggio l’autrice sembra porre anche il grosso problema della questione “classi sociali”, evocata già nel titolo dai due sociologi: “Cini e Bertuzzi concedono che ‘non tutti i valori o le idee sono uguali’, che la loro critica non si pone dal punto di vista di una teoria politica ‘“debole” e “relativista”, imbevuta di “post-modernismo”’ e che ‘c’è bisogno oggi di una rinnovata visione universalista’. Dove sta allora il problema? Che il ‘mio’ universalismo, l’universalismo dei diritti, non sarebbe l’universalismo ‘giusto’ che invece si rivelerà essere, alla fine dell’articolo, quello di classe”.

Condivido in pieno e aggiungo: la visione e l’etica dei diritti umani tende per forza ad una fluidificazione delle classi sociali, per me più che auspicabile.

Ritengo inoltre che la questione classista e la divisione destra/sinistra degli elettorati siano i principali fattori su cui da sempre contano le élite della finanza e delle monete per perpetuare il loro dominio sulla politica e sugli Stati nazionali.

Credo sia utile a tal proposito riportare un passaggio da questo mio articolo, che mi serviva per introdurre la questione per me oggi assai più importante delle classi sociali, quella del dominio tecnocratico: “Ritengo ormai da molti anni che le ideologie e le categorie novecentesche siano insufficienti e devianti per la nuova politica che reputo necessaria. L’insufficienza risiede, a mio modo di vedere, nel fatto che tali ideologie si basano, in buona sostanza, su lotte ‘di classe’ o su ‘conservazioni’ di situazioni che le lotte di classe miravano a ribaltare, o su restaurazioni di passati ormai bocciati dalla storia. Una causa di questa insufficienza è certamente l’evoluzione dei rapporti sociali, dovuta alla tecnologia, che da un lato ha ‘fluidificato’ le relazioni umane ed i rapporti fra le ‘classi sociali’, dall’altro ha modificato grandemente i rapporti fra élite e governati: quel che resta delle classi sociali è ormai subalterno ad una cerchia di soggetti, sempre più ristretta”.

La scrittrice continua in maniera assai brillante contraddicendo i due sociologi con argomentazioni che condivido in pieno e che sfatano uno dei mantra della sinistra contro i diritti umani: “Ma quali sarebbero le colpe inemendabili dell’universalismo dei diritti? Per Cini e Bertuzzi una delle premesse dell’approccio basato sui diritti umani sarebbe ‘la vecchia proposizione liberale secondo cui l’individuo è il centro di ogni ordine sociale e storico. O detto altrimenti, ogni società umana può essere concepita come la semplice sommatoria degli individui che la compongano’. Peccato che la seconda parte di questo periodo non sia affatto una conseguenza logica e necessaria della prima, come invece viene lasciato intendere. Ossia: mettere al centro l’individuo, partire dall’individuo come soggetto portatore di diritti non implica necessariamente concepire la società come la semplice sommatoria di individui così ‘negando o sminuendo l’insieme delle relazioni che strutturano e danno senso al vivere sociale’. Nella mia visione, per esempio, come spiego abbondantemente nel libro, mettere al centro l’individuo soggetto di diritti significa ‘farsi carico della responsabilità sociale di creare le condizioni affinché ciascuna individualità possa esprimersi nel modo più pieno, libero e consapevole possibile’ (p. 95). È dunque la precondizione per un progetto solidale di emancipazione universale dell’umanità, ossia di ogni essere umano. Assumendo la prospettiva che io propongo non ne discende affatto, come vorrebbero Cini e Bertuzzi, ‘l’idea che il vettore di ogni trasformazione sia l’agente individuale’. Nel mio libro non c’è traccia di questa idea atomistica dell’individuo, mentre centrale è la piena consapevolezza che, nella sua finitezza, ciascun individuo non sarà mai in grado di mettersi da solo nelle condizioni di godere a pieno dei diritti. Nella mia prospettiva, l’individuo (universale, non l’individuo-io) è il fine, non il mezzo. E, affinché i tanto bistrattati diritti umani siano davvero garantiti, è indispensabile una struttura sociale molto coesa, corpi intermedi – partiti, sindacati – che facciano la loro parte e uno Stato che metta i suoi cittadini nelle condizioni – culturali e materiali – di vedersi davvero garantiti quei diritti. Altro che ‘sommatoria di individui’!”.

Condivido in pieno, credo che solo delle argomentazioni molto ideologizzate non riescano a cogliere il senso e l’etica dei diritti umani, come spiegavo in questo articolo tratto dalla serie che sto scrivendo sui 30 Diritti, proprio in relazione al primo dei diritti dell’uomo: “Articolo 1. Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. Subito un’osservazione di carattere generale: non si parla solo di diritti ma anche di doveri e di ‘fratellanza’. Ciò è del tutto naturale, dato che solo una reciproca responsabilità può favorire il rispetto fra gli uomini e un diritto per tutti. Il dato che subito dopo appare importante è, ovviamente, quello di affermare che ogni essere umano nasce libero ed eguale ad ogni altro. Non è una concessione ma un fondamentale e definitivo riconoscimento, assoluto nella sua semplice purezza: è una dichiarazione di diritto che taglia i ponti con qualsiasi altra pretesa da considerarsi, da qui in poi, autoritaria. Ogni essere umano è quindi, in quanto tale, libero ed uguale ad ogni altro. La cosa interessante è però vedere come queste ‘libertà’ ed ‘eguaglianza’ non siano assolute ma vincolate ad altri due fattori: dignità e diritto. Ciò è assolutamente rimarchevole in quanto si afferma, di fatto, che la libertà non può essere incondizionata e che l’eguaglianza non debba intendersi come uniformità, identità o livellamento: siamo liberi ed eguali ‘IN’ dignità e diritti. Si definisce automaticamente che la libertà è tale se non inficia libertà, dignità e diritti altrui. Senza dignità e diritti per tutti non può esservi libertà ed eguaglianza. Dal che si deduce, ancora, come le libertà dell’individuo si preservano proprio quando possono contare sulla responsabilità reciproca. Tutto ciò rivela che i diritti umani determinano e coniugano, con la ‘ragione’ e la ‘coscienza’ che ci appartengono, i tre fattori etici vitali per la vita individuale e sociale: DIGNITÀ, LIBERTÀ e RESPONSABILITÀ. Dignità, libertà e responsabilità sono le tre anime, a cui si aggiunge una prescrizione: il ‘dovere’ di agire in spirito di fratellanza con il nostro prossimo”.

Queste osservazioni, insieme a quelle della Sciuto, credo siano più che sufficienti a smontare definitivamente l’accusa “individualistica” mossa da sinistra ai diritti umani.

Condivido molto anche i passaggi seguenti della scrittrice da me assemblati che, a mio parere, mostrano chiaramente l’altro grande problema alla base dell’impossibilità di assumere i diritti umani a faro per l’azione politica se si ha un punto di partenza ideologizzato.

Sto parlando della “suddivisione” dei diritti umani: “… quella di Cini e Bertuzzi sarebbe una critica ‘da sinistra’, che al fondo ripropone la vecchia contrapposizione fra diritti umani da un lato e diritti  sociali e politici dall’altro e, in ultima analisi, fra struttura e sovrastruttura: una dicotomia che secondo me tanti danni ha portato alla sinistra e che è uno degli oggetti di critica nel mio libro … A me pare che i diritti umani – per una certa sinistra – siano una specie di spauracchio: basta nominarli e si teme che dietro ci sia il capitalismo brutto sporco e cattivo. Mentre basterebbe affrontare le questioni con laicità e senza pregiudizi ideologici per rendersi conto che dietro i diritti umani, se presi sul serio, c’è la giustizia sociale, la redistribuzione della ricchezza, l’equità, l’uguaglianza, senza le quali rimangono mere petizioni di principio formali. La contrapposizione fra individuo da una parte e soggetti collettivi dall’altra è completamente sterile … perché continuare a riproporre la stantia contrapposizione fra diritti umani da un lato e diritti sociali e politici dall’altro? Cos’è che li renderebbe incompatibili o addirittura alternativi? I primi a soffrire della violazione dei diritti umani sono sempre i più sfruttati e oppressi, a partire dalle donne. E a me pare che i diritti siano indivisibili. Non c’è alcun dubbio che a sinistra manchi il ‘noi collettivo’. Ma – e forse qui c’è una differenza sostanziale fra me e i miei critici – il noi collettivo per me non è un fine in sé ma lo strumento di emancipazione degli individui. Se non è questo, se si trasforma nel fine in sé – come molto spesso, troppo spesso, è accaduto ai soggetti collettivi nella storia – molto laicamente dico: no, grazie”.

Perfetto, da sottoscrivere.

Veniamo ora alla radicale contestazione dei diritti umani “da sinistra” cui accennavo precedentemente.

A tal proposito ritengo utile rileggere quanto affermavo in questo mio recente articolo: “La sinistra più radicale li percepisce, in sostanza, come un prodotto liberal-americano-capitalista mostrando una grave incapacità di vederli per quello che sono, cosa potrebbe accadere se veramente attuati. La ‘colpa’ dei diritti umani sarebbe quindi anche quella di non essere riconducibili a passate ideologie: un punto di vista miope che non riesce a comprendere la sintesi universale compiuta nella Dichiarazione del 1948”.

Anche qui la Sciuto mostra di avere le idee assai chiare e di affrontare la questione in maniera del tutto corretta: “C’è infine nell’articolo di Cini e Bertuzzi la solita, un po’ noiosa a dir la verità, critica ‘postcolonialista’, secondo la quale i diritti umani sarebbero roba occidentale per di più elaborata da ‘individui maschi, bianchi, borghesi, proprietari’, e tanto basterebbe per rifiutarli. ‘Le società in cui i diritti umani hanno avuto origine o nelle quali tali diritti si professano oggi a livello costituzionale’, scrivono Cini e Bertuzzi, ‘sono considerate moralmente superiori rispetto a tutte le altre forme di organizzazione umana’: ma da chi? A me personalmente non importa nulla di costruire gerarchie fra le società, mi interessa il punto etico-politico: la libertà di espressione, la parità di genere, l’habeas corpus, il diritto a un giusto processo, la libertà di coscienza, la libertà di religione (inclusa la libertà dalla religione), il diritto a un’istruzione, il diritto a una abitazione dignitosa, al cibo e l’accesso all’acqua sono principi condivisibili da un punto di vista progressista, sì o no? Vale la pena battersi affinché ovunque nel mondo siano rispettati, sì o no? Vale la pena sostenere tutti i movimenti che, in tutto il mondo, in tutte le ‘civiltà’ si battono per essi, sì o no? Uno Stato che non prevede la pena di morte è più avanzato di uno che la prevede, sì o no? Ricordo, tanto per il gusto della precisione, che la pena di morte vige anche in alcuni Stati degli Stati Uniti d’America: quegli Stati Uniti che, secondo la narrazione assunta dai miei critici, io dovrei considerare la patria dei diritti umani. Beh, mi spiace deluderli ma io la violazione dei diritti umani sono capace di vederla dappertutto. Spesso invece i critici dei diritti umani mi pare siano un po’ strabici: quando la violazione dei diritti umani è ‘da noi’, pronti a salire sulle barricate, quando è ‘altrove’ si rimane fermi come belle statuine. Francamente non meriterebbe neanche un commento l’osservazione secondo la quale ‘i gruppi o le società che non abbracciano esplicitamente o costituzionalmente tali diritti sono considerate al di fuori dell’universo “umano” e quindi ogni azione o intervento nei loro confronti sono da ritenersi moralmente legittimi o addirittura necessari’. Questa neanche troppo velata accusa di sostenere una qualche ‘guerra umanitaria’ o ‘esportazione della democrazia’ con ‘ogni mezzo’ è da rispedire al mittente: in democrazia i mezzi non sono affatto secondari ed ‘esportare la democrazia’ è una contraddizione in termini, se poi ‘con le armi’ un totale nonsense. È un vero peccato che presunti critici dell’attuale ordine mondiale non si accorgano di aver assunto completamente la narrazione dominante. A Bush che dichiara di voler invadere l’Afghanistan per ‘portare la democrazia’ non ci crede neanche lui stesso e utilizzare questa che è pura propaganda di guerra per infangare i sostenitori dei diritti umani è indecoroso. Qui non c’è nulla da esportare c’è, come scrivo espressamente nel libro, da ‘continuare a percorrere la strada dell’emancipazione insieme a quei pezzi di umanità che in tutto il mondo la stanno già percorrendo’ (p. 149). Si chiama solidarietà internazionale, e dovrebbe essere una bandiera della sinistra”.

Si confermano quindi in pieno le contraddizioni di molta sinistra.

Oltre a ciò e riguardo alla, per me, ridicola questione che i diritti umani sarebbero stati elaborati “… da ‘individui maschi, bianchi, borghesi, proprietari”, ricorderei ai sociologi il lungo percorso di libertà dalle sopraffazioni: un percorso partito da molto lontano – addirittura con il Cilindro di Ciro, 539 a.C. – che avrebbe visto le sue tappe più recenti nella “Bill of Rights” britannica del 1689, nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776, che ispirò la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 stesa durante la Rivoluzione Francese.

Oltre a questo non dobbiamo dimenticare l’incessante e determinato sforzo di Eleanor Roosvelt, senza il quale probabilmente non avremmo alcun principio universale da discutere.

Per concludere, non posso non annotare con piacere l’esistenza di teste pensanti non appiattite sulle narrazioni dominanti dei vari schieramenti.

Abbiamo sempre più bisogno di speranza e voglia di combattere, in primo luogo intellettualmente: le narrazioni del “pensiero unico dominante”, del “politicamente corretto” ci stanno portando inesorabilmente a dimenticare che c’è qualcosa per cui vale la pena lottare.

 

Massimo Franceschini, 28 febbraio 2019

fonte immagine: Wikipedia

il mio libro, un programma politico ispirato ai Diritti Umani

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