Paolo Baffi: Moneta CEE falso traguardo

Riportiamo l’ultimo articolo scritto dal compianto ex governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, pubblicato da La Stampa il 3 giugno 1989.
Baffi vedeva con estrema chiarezza i pericoli della creazione di una moneta unica nella “Comunità Economica Europea”, successivamente divenuta con il Trattato di Maastricht “Unione Europea”.
In modo particolare evidenzia come l’obiettivo primario della stabilità dei prezzi (unico obiettivo della BCE, banca centrale europea) diventa causa di riduzione dei salari e, di conseguenza, di forti tensioni sociali.

La redazione

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Le considerazioni di Paolo Baffi, ex governatore della Banca d’Italia, sul ruolo dell’Europa

«Quando si è eretto il feticcio dei cambi fìssi le conseguenze sono state nefaste» – «Pochi bambini e tanti vecchi. Ecco il vero problema della comunità» – Una nuova ondata di immigrati è inevitabile

Il dibattilo in corso, specialmente vivace in Gran Bretagna, intorno alte forme e ai limiti dell’integrazione economica e politica nell’Europa occidentale, non può lasciare indifferente ogni persona sensibile ai problemi dell’ordine sociale. Gli è perciò che desidero contribuirvi con le osservazioni che seguono.

1. La lesi federalista di Einaudi muove dalla constatazione che gli Stati sovrani sono eternamente impegnati in una lotta per lo spazio vitale e l’egemonia, che giunge sino alla guerra ed ha, fra i suoi strumenti, il protezionismo. La stessa impostazione si trova in Spinelli e Rossi (Manifesto di Ventotene) che hanno letto le analisi di Robbins. Da questo Malo di cose derivano, sul piano dei beni materiali: a) la destinazione ad usi bellici di una parte delle ritorse prodotte, b) l’abbassamento dei livelli produttivi sotto il potenziale di libero scambio a causa delle distorsioni introdotte dal protezionismo. Inoltre ne segue c) una sottoutilizzazione delle infrastrutture apprestate dall’uomo, con impiego di risorse materiali e talenti, per la promozione dei traffici: impianti di trasporto e comunicazione, reti distributive e così via.
La federazione, si argomentava, eliminando la guerra e lasciando campo alla libera fioritura dei commerci, avrebbe rimosso queste tre ragioni di abbattimento del benessere e di dissipazione di risorse.

2. Gli obiettivi indicati dai federalisti italiani sono già stati sostanzialmente raggiunti, fuorché sotto due rispetti: a) l’ambito territoriale al quale essi si riferivano comprende i Paesi dell’Europa centro-orientale, fino alla linea che va dal Baltico al Mar Nero; è quindi più ampio di quello della CEE e giustificalo dall’insieme di ragioni geografiche, storiche e culturali che fanno di Varsavia, Praga, Vienna e Budapest sostanza d’Europa altrettanto viva quando lo siamo noi; b) nel settore agricolo, il Mercato Comune, in luogo della concorrenza, ha instaurato un pesante apparato protezionistico che si distingue per l’entità delle distorsioni produttive ed uno spreco di mezzi finanziari in cui alligna la frode. Su questi due fronti, la tesi federalista merita ulteriore impegno.

3. Sul piano monetario, l’assetto finale preconizzato dai nostri federalisti è quello della valuta unica che ritroviamo nel rapporto Delors. La fase di transizione verso di essa merita di essere gestita con il riguardo dovuto alle profonde trasformazioni in atto nelle economie della fascia di Paesi compresa fra la CEE e l’Unione Sovietica, e in quest’ultima. Poiché è eccessivo attendersi da tali Paesi un balzo improvviso verso schermi di piena convertibilità per merci, servizi e capitali, conviene che gli ordinamenti monetari del Mercato Comune in oggi, della Federazione domani, offrano loro meccanismi di associazione caratterizzati da convertibilità parziale, sistemi di credilo, qualche latitudine nella variazione dei tassi di cambio. In quest’ottica, la non definizione dei tempi di passaggio alla seconda ed alla terza fase del piano Delors è opportuna, perché consente di meglio raccordare il nostro progresso interno con quello dei potenziali Paesi partecipi di un’Europa allargata ai confini tracciati dai nostri federalisti.
Sembra peraltro eccessiva la irrevocabilità dei tassi di cambio prevista dal rapporto Delors per la seconda fase, che è ancora di monete distinte: la distinzione non avendo senso alcuno se non associata alla possibilità di variazione del cambio. La gestione della seconda fase, se i cambi fossero totalmente rigidi, sarebbe più difficile di quella della terza, per il minor potere dell’organo centrale di coordinamento.
La storia monetaria d’Europa ci rivela che, ogni qual volta la parità di cambio è stata eretta a feticcio o imposta senza adeguato riguardo alle sottostanti condizioni dell’economia, le conseguenze sono state nefaste. Mi riferisco in particolare al costo economico e sociale della riconduzione della sterlina alla parità antebellica nel 1925-26; all’imposizione alta Germania, da parte degli Alleati, di una parità aurea immutabile del marco che portò alla deflazione del 1931-32 e, con Hitler e Schacht, al controllo dei cambi; al futile tentativo, dopo la svalutazione della sterlina (settembre 1931 ), di costituzione di un blocco oro che condusse, in Francia, alla deflazione e a disordini sociali e, in Italia, all’instaurazione del controllo dei cambi sin dal 1934.
Queste riflessioni sono applicabili non soltanto ai vicini dell’Est, bensì anche ai tre Paesi mediterranei che si sono da ultimi associati alla Cee a venturi candidati come la Turchia. L’insistenza perché essi subiscano il giogo di un ordine guidato da una moneta dura come il marco, collocandosi entro fasce di oscillazione sempre più strette o nulle, ignora che ad ogni grado di maturazione economica e sociale corrisponde un sistema di vincoli appropriato. Una disciplina rigida in termini di prezzi e cambi, se può essere adatta ai grandi Paesi di antica industrializzazione legati fra di loro da una fitta rete di commerci che rende meno probabili ampie variazioni nelle mutue ragioni di scambio, male si addice ad economie, come quelle citate, impegnate a recuperare il ritardo rispetto alle prime.

4. Nello stesso ambito delle economie sviluppale, si deve osservare che un sistema a guida marco, fondato sulla stabilità dei prezzi, e sulla rigidità del cambio, impone a qualsiasi Paese che subisca uno shock riduttivo della sua capacità di produrre reddito (come furono i due del prezzo del petrolio negli Anni Settanta) la scelta fra il finanziamento estero e il ricorso all’abbattimento dei prezzi interni e, maggiormente, dei salari, che da Keynes in poi sappiamo essere oltremodo difficile e costoso in termini di tranquillità sociale e di produzione di reddito. L’aggiustamento relativo di prezzi e salari sarebbe più facile su un’onda di moderata inflazione diffusa al sistema, ma l’obiettivo essendo quello più severo dei prezzi stabili, questa agevolezza non si dà e di tanto si aggrava il vincolo della fissità del cambio.

5. Osservazioni di ugual senso sono sollecitate dall’istanza di stretto coordinamento delle politiche economiche e sociali in ambiti diversi da quello monetario.
Una lettura teorica corretta dell’opposta tesi propugnata in passato da De Gaulle, oggi dalla Thatcher — tesi che si trova anche nei nostri federalisti, gelosi della sopravvivenza di una pluralità di piccole patrie — ritengo estere quella recentemente proposta a Bruges dal professor Roland Vaubel. Secondo questa lettura, un coordinamento troppo spinto di politiche economiche elimina l’elemento di concorrenza, caratteristico del Mercato Comune, dal livello più alto in cui la concorrenza può esplicarsi, che è quello della formazione delle politiche medesime; esso è quindi contraddittorio con la filosofia del sistema, che in uno schema di piena coerenza interna dovrebbe consentire agli agenti opzioni diverse nelle loro decisioni di offerta di lavoro, di investimento di capitali, di culture e stili di vita.
L’argomento delle distorsioni che seguirebbero ad ordinamenti tributari diversi perde peso qualora ciascuno di essi soggiaccia al vincolo di un equilibrio finanziario complessivo: è su questo vincolo, piuttosto che sull’omogeneità degli assetti tributari nazionali, che dovrebbe portarsi lo sforzo di convergenza.

6. Il problema della sottoutilizzazione delle infrastrutture, richiamato da Einaudi (1.), potrà ripresentarsi, anziché per effetto del protezionismo, a causa del declino demografico in atto nell’Europa occidentale. Le grosse coorti di nati nel ventennio 1945-65 toccheranno l’età della pensione nel primo quarto del prossimo secolo. In quel torno di tempo, sia l’indice di vecchiaia (vecchi/giovani) sia l’indice di dipendenza degli anziani (vecchi/adulti) della popolazione europea segneranno purtroppo una nuova impennata. Le folte schiere dei vecchi continueranno a presentarti sul mercato come compratrici, con i mezzi forniti dagli estesi sistemi di previdenza sociale e privata. Gli equilibri di mercato non soffriranno dunque di un difetto di domanda, bensì di una possibile carenza di offerta del fattore produttivo lavoro. In una condizione siffatta, l’immigrazione si presenterà come un meccanismo riequilibrante, un innesto naturale che sarà attivato dalle chiamate delle imprese produttive (e delle stesse famiglie). Poiché essa proverrà inevitabilmente da Paesi di civiltà diversa dalla nostra, il problema della preservazione del nostro sistema di valori ne risulterà aggravato e tanto più meritevole dell’attenzione che per esso chiedono gli assertori delle piccole patrie, del genio europeo della varietà, contro possibili processi di entropia culturale.

7. Se si fa idealmente centro a Bruxelles, e con moto rotatorio si gira, seguendo il sole da Est ad Ovest, lungo un arco di 180°, si incontrano prima i problemi dei rapporti con gli Stati ad economia socialista e di quelli con i Paesi del Golfo produttori di energia. Indi si affacciano quelli dell’immigrazione che configurano un ritorno pacifico del turco e del saraceno. Questo stesso problema di massicce migrazioni si ripropone sulle sponde del continente africano, tormentato da eccesso di popolazione, fame e desertificazione. Procedendo ancora, l’esplosione demografica si trova associata, in America Latina, a quella del debito estero, che ha raggiunto livelli incompatibili con ogni speranza di puntuale assolvimento. Infine, a tutto Ovest, ci si imbatte nel persisterne disavanzo di parte corrente della bilancia dei pagamenti della più ricca fra le economie sviluppate (che nel sessennio 1983-1988 ha toccato il quasi incredibile importo di 700 miliardi di dollari) gemellato allo squilibrio delle finanze pubbliche e fonte di tendenze protezionistiche che minacciano sempre più gravemente l’ordinato sviluppo dei commerci mondiali.
Nessun altro sistema politico è complessivamente interessato a queste fondamentali tematiche quanto l’Europa occidentale e, in seno a questa, la Germania: centrale, competitiva, tuttora ricca di tecnologie e di capitali, seppure divisa ed in preda ad un pauroso declino demografico.

8. Il nostro arco, dopo averci offerto la visione esaltante di processi di trasformazione sociale atti a colmare il fossato tra sistemi politici rivali, ci propone dunque quella, angosciante, di una molteplicità di equilibri infranti — nei rapporti tra sviluppo economico e conti esteri, tra demografia e sviluppo, tra economia e ambiente — che è arduo ricomporre o sostituire con nuovi. In ognuna di queste situazioni ricorre l’aspetto finanziario. Si danno infatti problemi di realizzare una minore instabilità delle ragioni di scambio nei rapporti fra produttori di materie prime, fonti di energia e manufatti. In Africa si incontrano problemi di difetto di accumulazione, cui fa d’uopo sovvenire con investimenti agevolati e donazioni. Nell’America Latina, spiccano le esigenze di finanziamento condizionato da parte delle istituzioni internazionali e di regolazione dei flussi di credito bilaterali, ufficiali e privati; più a Nord, il problema della instabilità dei cambi fra le tre grandi aree monetarie (del dollaro, della CEE e dello yen) e quello del disavanzo americano.
Sembra quindi giunto per tutti il momento di allargare gli orizzonti e di innalzare i traguardi verso alcune prime attuazioni di un governo mondiale che era pure negli auspici di Einaudi. Un contesto in cui anche ai massimi responsabili dell’economia e della finanza dell’Europa occidentale, ministri e governatori, incombe l’obbligo di modellare le politiche di quest’area subcontinentale nel senso della sollecitazione, ad Oriente, delle virtualità positive insite nei processi in atto; a Mezzogiorno e ad Occidente, nel senso della correzione degli squilibri globali. Magari collocando in grembo al tempo e all’esperienza problemi minori, quale quello dell’eliminazione dei residui gradi di flessibilità di un sistema regionale di cambi già abbastanza stabile ed efficiente.
Paolo Baffi

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