Ostrogorski e la critica democratica della democrazia: perché i partiti operano per formare l’opinione pubblica, più che per fare gli interessi del popolo.

Come fare emergere la sovranità della massa del popolo in una società atomizzata di individui sradicati (la società del XIX secolo), in preda agli eccessi disumanizzanti della rivoluzione industriale?

È a livello democratico-liberale che Moisei Ostrogorski (uno dei fondatori della sociologia politica moderna) affronta questo problema. Una posizione che inizialmente può destare sospetto, ma che di fatto offre le migliori garanzie di correttezza, dato l’orientamento, alla tesi dell’autore, “critico democratico” della democrazia.

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Nato nel 1854 a Grodno, in Russia, morto nel 1921 a San Pietroburgo, Ostrogorski tenne lezioni a Parigi alla Scuola Libera di Scienze Politiche, prima di cimentarsi nell’opera che lo occuperà negli anni di cambio del secolo, Democrazia e Organizzazione dei partiti politici (1903), di cui Democrazia e partiti politici (1912) è una sintesi.

Segnato dall’evidente influenza degli scritti di Tocqueville, questa importante opera, la cui semplice sintesi supera le 700 pagine, servirà da pilastro della nuova disciplina della sociologia politica.

Prendendo in considerazione la definizione contrattualistica di democrazia di Rousseau e di Locke, il pensatore russo conclude rapidamente che sono necessari nuovi organismi intermedi per formare l’opinione pubblica, quegli organismi che le rivoluzioni popolari, dal 1789 al 1917 ed oltre, avevano messo a morte, e che è necessario porre le basi di una maggioranza politica a suo avviso necessaria per l’esercizio del parlamentarismo moderno.

È sul sistema di “partiti rigidi”, una delle opzioni che rispondono a questa esigenza, che si concentrano le sue critiche. I partiti, dice Ostrogorski, invece di creare le condizioni per la democrazia, contribuiscono piuttosto a sottrarne l’esercizio al popolo ed a cristallizzare un’oligarchia dell’opinione.

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A sostegno di questa tesi, l’indagine dell’autore esplora due sistemi partitici “rigidi”, cioè in cui i partiti e le famiglie politiche sopravvivono per molto tempo, al di là della costituzione di coalizioni temporanee.

La prima verifica Ostrogorsky la fa sull’Inghilterra, analizzando il sistema parlamentare per eccellenza proprio nel suo luogo di nascita. L’apparato dei partiti lo aveva sfigurato. Agli occhi di Ostrogorski si era arrivati all’opposto dell’ideale democratico (sempre nell’accezione contrattualista del termine): l’esistenza di un sistema maggioritario aveva portato ad una mancanza di reale dibattito in Parlamento. I regolamenti procedurali riducevano “l’opposizione leale” (qualunque fosse il suo colore politico) alla sua espressione più modesta. L’onnipotenza del governo, difeso in parlamento da una maggioranza blindata intorno alla disciplina del voto, seduta su una burocrazia pletorica, aveva ridotto la pratica democratica ad un’ombra persistente di arbitrarietà. Nei confronti dell’opinione pubblica l’apparato dei partiti, indipendentemente dal fatto che fosse o meno in attività, svolgeva soprattutto la funzione di creare una opinione, che sarebbe poi stata trasmessa al popolo tramite gli organi di stampa.

Ma se il caso inglese fosse un caso isolato? Se fosse solo la conseguenza di un passato macchinoso, di una società con una storia troppo antica? Ostrogorski decide allora di seguire le orme di Tocqueville, il suo maestro pensatore: gli Stati Uniti diventano il suo secondo campo di indagine. Una società giovane, il modello stesso del contratto sociale, ancora nutrito dagli ideali della sua recente indipendenza, che ha conosciuto solo governi democratici dall’adozione della sua costituzione.

La società americana aveva diviso da tempo il suo campo politico in due “partiti rigidi” che esistono ancora oggi. Anche da loro si vede di nuovo qualcosa di triste. Il governo popolare si era allontanato dal popolo e si era messo al servizio delle forze del mercato. Fin dall’inizio la costruzione della società americana era stata intesa come nient’altro che una costruzione materiale, una ricerca di beni di sussistenza, seguita da una ricerca di opulenza. Tutto era ordinato per quello, secondo lo spirito nazionale, in quanto l’abbondanza di terre e risorse portava allo sfruttamento intensivo, alla rapina, alla facilità e in quanto una lunga serie di successi economici finì per causare una grande miopia: volere tutto e subito.

Questa attività economica fiorente, in effetti, non ha mai completamente cancellato gli ideali dei padri fondatori: al contrario essi hanno acquisito il valore di dogmi immutabili e tutta la questione politica americana verte intorno ad essi. Il culto della libertà è diventato simile alla pratica religiosa corrente di una società protestante: un insieme di obblighi formali al servizio di una idea eterea, disincarnata, ridotta alla sua stretta e silenziosa trascendenza. Tramite la stessa preoccupazione per le forme questo culto si declina per sacralizzare la libertà, la patria («My country, right or wrong»)… e finanche a sacralizzare gli stessi partiti (« My party, right or wrong»). Tutto il buonsenso (la «common decency») anglosassone impone questi sacrifici che, simbolici e compiuti con poco sforzo, permettono a tutti di fare i loro affari con tranquillità. Ma qual colpo peggiore si potrebbe dare alla Democrazia che questa pace della mente, questa pace dei cimiteri delle liti pubbliche raddoppiate a causa del maggiore attivismo nella sfera del commercio?

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Estendendo l’idea di Ostrogorski, dobbiamo convenire, dato il contenuto delle dottrine contrattualistiche, che il baco si trova effettivamente nel frutto. È infatti la salvaguardia di interessi personali ed egoistici che va contro il contratto sociale descritto da Locke nel suo Secondo trattato sul governo civile (1690): libertà individuale e proprietà privata. È per l’individuo, titolare in proprio dei diritti naturali, che l’intero edificio democratico è ordinato per proteggere questi diritti. Ed è come una maschera, come una foglia di fico che aggiunge un formalismo democratico sussidiario, un manto di false virtù intrecciato a discorsi, idee generali e disincarnate, e formule finalizzate a formare l’opinione pubblica.

È necessario evidenziare questo formalismo che maschera una impostura fondamentale e pericolosa: l’operato degli apparati di partito agisce per modellare lo spazio pubblico e per definire gli argomenti dei dibattiti, eliminando quindi la possibilità stessa di discutere e formare opinioni al di fuori di quell’ambito. Con il pretesto di garantire la libertà di espressione delle opinioni (che aggregano, quando una moltitudine di opinioni sparse e disorganizzate non possono essere ascoltate in precedenza), trasforma il contenuto stesso dell’opinione, lo confina nelle alternative che propone, lo normalizza, lo fonde in una massa astratta e lo allontana dai problemi concreti che la politica dovrebbe risolvere.

È sintomatico a questo riguardo che la prima parte del libro di riferimento di Bernays, Propaganda, come manipolare l’opinione in democrazia (1928) raccomanda di “organizzare il caos”, vale a dire di formattare l’opinione pubblica, di massificarla per poterla controllare meglio. La “volontà generale” del popolo di cui scriveva Rousseau non può emergere da sola: deve essere “fatta accadere” o, per dirla diversamente, deve essere “inventata”. Tutto cose di cui Ostrogorski sarebbe stato scandalizzato, se non avesse visto la china e previsto il compimento nella sua magistrale analisi dei partiti politici.

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È sotto l’apparenza a favore e in nome dell’ideale democratico contrattualista che il sistema istituzionalizzato dei partiti, che è fiorito dalla comparsa della Democrazia, – si nutre dell’individualismo radicale più egoista e più affarista per insediare meglio la sua oligarchia di governanti e di opinionisti. Queste sono le amare conclusioni di Ostrogorsky, un democratico deluso e pessimista posto di fronte alle contraddizioni interne di un sistema che tende ad essere l’ancora e riferimento di se stesso.

La sovranità popolare, in definitiva, è una chimera che sta qui e là tenuta su da molte stampelle, fra le quali vi sono i partiti politici. Alla prova dei fatti la sovranità popolare può essere espressa solo in modo artificioso e orientato e, nella migliore delle ipotesi, può giungere solo a sanzionare o sostenere le azioni dell’oligarchia, la quale mette in mano al popolo lo specchio deformante nel quale, bene o male, si deve riconoscere.

Tratto e tradotto da:
https://www.lerougeetlenoir.org/contemplation/les-contemplatives/cercle-bossuet-ostrogorski-ou-la-critique-democrate-de-la-democratie

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