Mistificazione (Fake News) e demistificazione (Debunking)

di Franco Mattarella

Come smascherare e contrastare la disinformazione

Secondo lo psicologo Stephan Lewandowsky (ved. bibliografia 2012) la disinformazione (deliberatamente o inconsapevolmente) proviene da almeno quattro fonti:

  1. Voci di popolo e Opere di Narrativa
  2. Governi e Politici
  3. Interessi specifici (Lobbies)
  4. Mass Media e Social Media

Il processo attraverso cui agisce la disinformazione, e il modo per smascherarla, viene descritto da Lewandowsky per un caso specifico (il cambiamento climatico) nel “Manuale della demistificazione – Come sfatare i miti della disinformazione“).


I disinformatori creano dei falsi miti. I demistificatori (debunkers) devono fornire verità scientifiche con le quali colmare gli spazi mentali occupati dai falsi miti.

La “costruzione di un’opinione” nella mente di ogni persona si basa su processi mentali complessi che hanno operato magari per molto tempo. Quindi non si può pensare che sia possibile modificare quell’opinione rapidamente, dato che essa si è depositata nella memoria di lungo termine e viene continuamente rafforzata da distorsioni della valutazione causate dai pregiudizi (bias cognitivi) e da euristiche (scorciatoie mentali), quali ad esempio: confirmation biaseuristica della rappresentativitàeuristica del conformismo, ecc.) e dalla fiducia riposta in certe fonti informative (persone, TV, giornali, ecc.) dovuta alla familiarità con esse.

Un buon esempio di costruzione delle credenze l’ha fornito il filosofo Charles Sanders Peirce nel saggio “Il fissarsi di una credenza“.

 

Processo di mistificazione scientifica

Secondo lo psicologo John Cook (ved. bibliografia2012) le cinque caratteristiche che favoriscono le mistificazioni scientifiche sono:

  1. Credere ai “Falsi esperti” (non verificarne la credibilità scientifica)
  2. Fallacie logiche (non accorgersi della fallacia degli argomenti presentati)
  3. Aspettative impossibili (avere delle credenze lontane dalla realtà)
  4. Scelte selettive (non accorgersi che le scelte proposte dai mistificatori sono parziali e scelte appositamente)
  5. Credere nelle teorie della cospirazione (credere, in generale, ai complotti e alle cospirazioni)

 

I meccanismi psicologici che favoriscono le bufale

Nella mente umana ci sono dei meccanismi, nati con l’evoluzione, che favoriscono le Fake News e la cui diffusione viene amplificata dal Web e dai Social Media: sono i Bias Cognitivi di cui si sono occupati gli psicologi Daniel Kahneman (premio Nobel 2002) e Amos Tversky.

I giornalisti Paolo Moderato e Massimo Cesareo (vedi bibliografia) hanno definito il fenomeno scrivendo:

Prendiamo come esempio quello che viene definito bias di conferma. La letteratura mostra come le persone tendano a cercare informazioni che confermino le proprie ipotesi iniziali su determinate tematiche. Ciò significa che, se le idee di partenza risultano distorte, tenderanno a trovare conferma. È facile comprendere come, nell’era digitale, chi sviluppa per diverse ragioni opinioni contrastanti con la realtà dei fatti – per esperienza personale, per senso comune, per appartenenza a un gruppo – troverà con molta facilità conferma nel web. Nell’era dei big data, peraltro, le nostre ricerche vengono costantemente analizzate e ci vengono suggerite notizie in linea con queste ultime. Si crea, in tal modo, un circolo vizioso che si autoalimenta: pertanto, più cerchiamo conferma di una nostra opinione, più troveremo notizie che la confermano. Inoltre, si favorisce lo sviluppo di sacche di disinformazione dalle quali è difficile uscire senza un controllo esterno. Purtroppo, questo è solo un esempio che aiuta a comprendere come le fake news possano proliferare. Esistono infatti molti altri meccanismi simili che ne favoriscono la diffusione e la possibilità di condividere con pochi click le informazioni presenti sui social media.

 

La diffusa credenza nei complotti e nelle cospirazioni

Le teorie del complotto sono sempre state (e sono tuttoggi) molto popolari, infatti le persone, quando accade un evento particolarmente drammatico hanno bisogno di una spiegazione altrettanto drammatica emotivamente. I giuristi Cass Sunstein e Adrian Vermeule (vedi bibliografia), analizzando un sondaggio del 2004 sull’attentato alle Torri Gemelle, trovarono che il 49% dei cittadini residenti in New York credeva che il Governo fosse a conoscenza dell’attentato ma che non fu in grado di evitarlo. Nella conclusione del loro studio essi scrivono:

La maggior parte delle persone non ha informazioni personali dirette che possano spiegare eventi terribili, e sono spesso tentate di attribuire tali eventi a un attore nefasto, in parte a causa della loro rabbia. È meno probabile che la tentazione venga contrastata se anche altri danno le loro stesse spiegazioni. Le cascate cospirative nascono attraverso gli stessi processi che alimentano molti tipi di errori sociali. Ciò che rende tali cascate più distintive e significativamente diverse da altre cascate che coinvolgono credenze anch’esse false e dannose, è la loro qualità autoisolante. Le stesse affermazioni e fatti che potrebbero dissolvere le cascate di cospirazioni possono essere prese come ulteriore prova sul loro conto. Questi punti rendono particolarmente difficile per gli estranei, inclusi i governi, il loro ridimensionamento. Alcune false teorie cospirative creano seri rischi. Non semplicemente minano il dibattito democratico; in casi estremi, esse creano o alimentano la violenza.

Il giornalista Massimo Polidoro (vedi bibliografia) descrive gli interventi decisi nel 2016 dal Governo francese per contrastare il fatto che, secondo un sondaggio, un giovane francese su cinque crede nelle teorie del complotto.

 

Processo di de-mistificazione

La definizione che la Treccani dà della mistificazione è la seguente:

Distorsione, per lo più deliberata, della verità e realtà dei fatti, che ha come effetto la diffusione di opinioni erronee o giudizî tendenziosi, sia in campo ideologico sia, per es., nel settore del commercio e della pubblicità, al fine di trarre vantaggio dalla credulità altrui.

La mistificazione si basa quasi sempre sulla costruzione di una “narrazione”. La mente di ogni persona è piena di narrazioni di vario genere, formatesi nel corso della sua vita, in un processo continuo che lo psicologo Jerome Bruner ha indagato associandolo alla costruzione dell’identità personale. Secondo Bruner (ved. bibliografia 1992) ogni persona, fin dall’infanzia sente il bisogno di dare un significato alla realtà organizzando la sua esperienza in forma narrativa.

Il primo passo, dunque, consiste nello smontaggio di questa narrazione, cercando di evitare tre effetti collaterali derivanti da questa operazione (ved. immagine a fianco):

  1. Ritorno di fiamma di temi familiari (Familiarity Backfire Effect): non bisogna parlare di ciò che si vuole confutare ma solo di ciò che si vuole sostenere
  2. Contraccolpo dell’esagerazione (Overkill Backfire Effect): occorre confutare dando una spiegazione semplice
  3. Contraccolpo della visione del mondo (Worldview Backfire Effect): occorre evitare messaggi che siano fortemente in contrasto con la visione del mondo delle persone cui è diretta la confutazione
Infine, la demolizione di una narrazione lascia un vuoto nella mente delle persone (ved. bibliografia Ecker 2011).
L’ultimo passo del processo di demistificazione consiste quindi nel riempire questo vuoto con una nuova narrazione, completa e coerente, in grado di eliminare il disagio creato dal vuoto.
Un esempio di de-mistificazione
Un esempio di demistificazione è stato condotto dallo psicologoWill Thalheimer e riguarda il “Cono di Dale” molto citato, fin dal 1946, riguardo alla capacità di memoria e di apprendimento umani (ved. immagine a fianco).

Secondo molti autori il Cono di Dale sostiene che le persone ricordano il 10% di ciò che leggono, il 20% di ciò che ascoltano, il 30% di ciò che vedono, il 50% di ciò che ascoltano e vedono, ecc.
Secondo Thalheimer, esso non è che un mito ancora oggi utilizzato da molte persone e organizzazioni, variando i dati in funzione dei propri scopi.
La demistificazione di Thalheimer ( e dei suoi collaboratori) viene argomentata nell’articolo del gennaio 2015 “Mythical Retention Data & The Corrupted Cone“, ed è basata su 2 passi.
  1. Il primo passo (mythical retention chart) mostra vari grafici, presenti in letteratura, nei quali sono riportate le percentuali di ciò che si ricorda con i vari sensi. Thalheimer mostra che le percentuali riportate nei grafici sono diverse, nel senso che non vengono riportati valori univoci ma ogni autore che ha utilizzato il Cono di Dale ha variato le percentuali a proprio piacimento. Thalheimer scrive di aver verificato un centinaio di grafici, di vari autori, e tutti con valori diversi. La proliferazione di articoli contenenti immagini di coni con varie percentuali è stata così elevata da falsare la veridicità delle fonti bibliografiche.
  2. Il secondo passo (corruption of Dale’s Cone of Experience) consiste nella prova della corruzione del grafico originale. Thalheimer è infatti andato a verificare l’immagine inserita da Dale nel suo libro (Audio-visual methods in teaching – edizione 1969), scoprendo che Dale non aveva inserito nessun numero sul suo grafico originale e, anzi, avvertiva i lettori di non prendere il suo grafico alla lettera (vedi grafico originale a fianco).
    Sfortunatamente molti autori si sono lasciati trascinare dall’entusiasmo per l’efficacia didattica delle percentuali, creando il “mito della ritenzione” che ancora oggi permane, a causa della pervasività del web.

 

Come è difficile cambiare le credenze delle persone

Cambiare i sistemi di credenza delle persone è difficile se non impossibile, come fa notare lo psicologo Luciano Arcuri (ved. bibliografia) riguardo ai metodi per ridurre stereotipi e pregiudizi (p. 6):

Possiamo individuare tre possibili percorsi da compiere. Il primo consiste semplicemente nel cambiare i sistemi di credenze che gli individui portatori di stereotipi possiedono: ma si tratta, di fatto,  di una strada senza uscita. Le aspettative a cui le persone sono ancorate tendono ad autoconfermarsi con tutti i mezzi, per cui tentare di fornire tendenze contrarie allo stereotipo posseduto non dà risultati apprezzabili, dato che le nuove informazioni sono ignorate (Trope e Thompson, 1997), distorte (Darley e Gross, 1983), dimenticate (Fyock e Stangor, 1994), attribuite ad altri (Hewstone, 1990), oppure, se mai hanno qualche influenza, questa ha una efficacia limitata nel tempo (Rothbart e John, 1992). […] Un secondo percorso per tentare di rendere inoffensivi gli stereotipi potrebbe mantenere inalterati i sistemi di credenze ma evitare di applicarli ai singoli individui. Anche in questo caso la battaglia è particolarmente difficile: lo stereotipo è normalmente così ben appreso e praticato, così capace di manifestarsi anche al di fuori della consapevolezza  del portatore (Bargh, 1999) da rendersi impermeabile a queste strategie di riduzione. Un terzo e forse più efficace percorso è quello basato sulla ridefinizione dei confini sociali. Quando i membri di due gruppi sociali sono in grado di considerarsi membri di un gruppo comune, stereotipo e pregiudizio possono ridursi in maniera significativa (Gaertner e Dovidio, 2000). Ma si tratta di un percorso estremamente lungo e pieno di insidie.

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