Michal Kalecki: perché i capitalisti non vogliono la piena occupazione

di Davide Gionco

In questo articolo vogliamo riprendere una pubblicazione del 1943 dell’economista polacco Michal Kalecki, il quale si occupò nel suo libro “Political aspects of full employment”  degli aspetti politici della piena occupazione.
Si tratta di un tema di assoluta attualità oggi in Italia, con il 12% di disoccupazione, il 30% di disoccupazione giovanile, una diffusa sotto-occupazione e decine di migliaia di imprese che lavorano molto al disotto del loto potenziale produttivo.

Nel momento in cui in Italia, e in tutta Europa, si adottano politiche di stampo fortemente capitalista, in ottemperanza al pensiero unico neoliberista imperante, è inevitabile trovarsi ad avere 7 milioni di disoccupati.
Non si tratta di un problema momentaneo, ma di una conseguenza strutturale delle politiche liberiste dell’Unione Europea, basate su diffuse privatizzazioni dei servizi pubblici, sull’indipendenza della banca centrale, sulla moneta unica, sulla libera circolazione dei capitali e delle merci, sull’austerità di bilancio, ecc.

La realtà è che l’economia non è una “scienza neutrale”, come ce la presentano oggi sui mass media, ma è una scienza umana, infarcita di idee, di motivazioni politiche e a rischio di diventare una ideologia irrazionale.
Le credenze economiche risentono molto delle finalità che si intende dare alle politiche economiche.

La “piena occupazione”, ovvero una situazione per cui chiunque voglia trovare un posto di lavoro dignitoso per mantenere la propria famiglia lo possa fare ed una situazione per cui le piccole e medie imprese siano piene di ordinativi è in realtà un obiettivo politico che non conviene a coloro che detengono i grandi capitali. Per questo i “capitalisti” spingono i mezzi di informazione e la politica nella direzione di favorire i propri interessi e non quelli della maggioranza della popolazione.

Il testo che pubblichiamo è tratto da un testo più ampio, tradotto in italiano sul blog
http://gondrano.blogspot.com/2012/09/aspetti-politici-del-pieno-impiego.html
Invitiamo chi intendesse approfondire il discorso a consultare anche questa fonte originale.

Buona lettura.

 


 

Affronteremo innanzitutto la riluttanza dei “capitani d’industria” ad accettare l’intervento del Governo nel campo dell’occupazione.

Ogni ampliamento dell’attività dello Stato è vista dal “mondo degli affari” [business] con sospetto, ma la creazione di posti di lavoro con la spesa pubblica presenta un aspetto speciale che rende l’opposizione contro di essa particolarmente intensa.

In un sistema di laisser-faire il livello dell’occupazione dipende grandemente dal cosiddetto stato della fiducia [state of confidence].

Se questo si deteriora, gli investimenti privati diminuiscono, e questo provoca una caduta sia della produzione che dell’occupazione (sia direttamente che attraverso l’effetto secondario della caduta dei redditi sui consumi e sugli investimenti)

Questo dà ai capitalisti un potente controllo indiretto sulla politica del Governo: tutto quello che può scuotere lo stato della fiducia deve essere attentamente evitato perché causerebbe una crisi economica.

Ma una volta che il Governo apprende il trucco di incrementare l’occupazione con i suoi stessi acquisti, questo potente strumento di controllo perde la sua efficacia.

Quindi i deficit di bilancio necessari per portare a termine l’intervento del Governo devono essere considerati pericolosi.

La funzione sociale della dottrina di una “finanza solida” [sound finance] è quella di rendere il livello dell’occupazione dipendente dallo “stato della fiducia”.

 

L’avversione degli uomini d’affari [business leaders] contro una politica di spesa del Governo diventa ancora più acuta quando giungono a considerare gli obiettivi per i quali il denaro dovrebbe essere speso: investimenti pubblici e sostegno al consumo di massa.

I principi economici dell’intervento del Governo richiedono che gli investimenti pubblici siano confinati a oggetti che non competono con i mezzi di produzione delle imprese private (ad esempio ospedali, scuole, autostrade, etc.).

Altrimenti la profittabilità degli investimenti privati potrebbe essere diminuita e l’effetto positivo degli investimenti pubblici sull’occupazione controbilanciato dall’effetto negativo del declino degli investimenti privati.

Questa concezione si adatta molto bene alle richieste degli uomini d’affari.

Ma l’ambito degli investimenti pubblici di questo tipo è piuttosto ristretto, e c’è il pericolo che il Governo, nel perseguire questa politica, possa alla fine essere tentato di nazionalizzare i trasporti o i servizi idrici ed elettrici [public utilities] così da acquisire una nuova sfera di intervento nella quale poter investire.

Ci si potrebbe quindi aspettare che gli uomini d’affari e i loro esperti preferiscano un sostegno dei consumi di massa  (per mezzo di assegni familiari, sussidi per calmierare i prezzi dei beni di prima necessità, etc.) agli investimenti pubblici; dal momento che sussidiando i consumi il Governo non si imbarcherebbe in nessun tipo di “impresa”.

In pratica, tuttavia, questo non accade.

Al contrario, sussidi ai consumi di massa sono avversati molto più violentemente da questi “esperti” che non gli investimenti pubblici.

Perché qui è in gioco un principio “morale” della massima importanza.

I principi fondamentali dell’etica capitalista richiedono che “tu ti guadagnerai il tuo pane con il sudore” –  a meno che non capiti che tu sia ricco.

 

Abbiamo considerato le ragioni politiche dell’opposizione contro la politica di creare occupazione con la spesa del Governo. Ma anche se questa opposizione fosse superata – come potrebbe benissimo essere superata sotto la pressione delle masse – il mantenimento del pieno impiego causerebbe cambiamenti sociali e politici che darebbero un nuovo impulso all’opposizione degli uomini d’affari.

Certamente, in un regime di permanente pieno impiego, il licenziamento cesserebbe di giocare il suo ruolo come strumento di disciplina [disciplinary measure].

La posizione sociale del capo sarebbe minata e la fiducia in se stessa e la coscienza di classe della classe operaia aumenterebbero.

Scioperi per ottenere incrementi salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro creerebbero tensioni politiche.

E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego di quanto sono in media in una condizione di laisser-faire; e anche l’incremento dei salari risultante da un più forte potere contrattuale dei lavoratori è più probabile che incrementi i prezzi anziché ridurre i profitti, e danneggi così solo gli interessi dei rentier.

Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più apprezzate dei profitti, dagli uomini d’affari.

Il loro istinto di classe gli dice che un durevole pieno impiego non è sano dal loro punto di vista e che la disoccupazione è una parte integrante di un normale sistema capitalista.

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