L’inganno collettivo della spesa pensionistica

di Davide Gionco

Da almeno 25-30 anni c’è in Italia un « gran discutere » sulla sostenibilità del sistema pensionistico.
Dalla riforma di Dini del 1995 alla riforma della Fornero nel 2011 alle discussioni sempre attuali sui mezzi d’informazione.

L’idea di base delle discussioni è che i fondi disponibili, derivanti dai versamenti INPS, non siano sufficienti a pagare le retribuzioni pensionistiche, a causa dell’allungamento della durata di vita media della popolazione, che attualmente in Italia è di circa 84 anni per gli uomini e 86 anni per le donne.

Di conseguenza le varie riforme politiche del sistema hanno di conseguenza puntato da un lato sull’aumento dei versamenti pensionistici da parte dei lavoratori, per aumentare la disponibilità della cassa, e dall’altro lato sull’aumento dell’età di passaggio alla pensione (scandalosa la riforma Fornero con la creazione degli “esodati”), che serve a ridurre gli esborsi per il pagamento delle pensioni e sulla riduzione degli assegni pensionistici.

Questo approccio alla questione denota diverse gravi carenze concettuali di macroeconomia ed una evidente distorsione ideologica, guarda caso sistematicamente a favore dei detentori di grandi capitali e delle fasce più ricche della popolazione, che sono in realtà gli unici ad avere tratto vantaggio dalle varie “riforme” pensionistiche.

Per comprendere concettualmente come funzioni un sistema pensionistico, senza essere ingannati dalla falsa narrativa dei mass media, dobbiamo tornare al passato, precisamente al sistema pensionistico dell’anno 1718.
Come funzionava il sistema pensionistico del 1718, 300 anni fa in Italia?

E’ noto che nel 1718 non esisteva ancora la nazione italiana e che non esisteva neppure un sistema pensionistico come lo conosciamo oggi, fatto di versamenti e di assegni mensili corrisposti.
Eppure all’interno di ogni famiglia le persone anziane, non più in grado di lavorare, venivano mantenute dai membri più giovani della stessa famiglia, i quali producevano i beni necessari al mantenimento non solo degli anziani di famiglia, ma anche dei bambini, delle donne in gravidanza, di eventuali disabili e di persone temporaneamente malate.

Naturalmente i mezzi di produzione erano quelli di 200 anni fa, così come le cure mediche, ma la logica era la stessa che utilizziamo anche oggi: i giovani in grado di lavorare producono beni e servizi e una parte della produzione viene ceduta alle persone anziane non più in grado di lavorare.

In questi 200 anni sono state apportate due sole novità organizzative al sistema.
La prima novità è la mutualizzazione del servizio, ovvero abbiamo introdotto un meccanismo di solidarietà nei confronti di persone che non abbiano dei giovani lavoratori in famiglia in grado di mantenerli, abbiamo creato una sola “grande famiglia” costituita dalla comunità dei 60 milioni di persone che abitano in Italia.
Si tratta di un miglioramento sostanziale rispetto al 1718, in quanto oggi tutte le persone anziane non in grado di lavorare ricevono dalla parte attiva della società i beni e i servizi necessari alla loro sopravvivenza, mentre nel 1718 chi fosse rimasto senza figli lavoratori avrebbe dovuto chiedere ospitalità a qualche pia opera della Chiesa Cattolica o ridursi a vivere come mendicanti.

La seconda novità è la monetizzazione dell’economia. Nel 1718 la fornitura di beni e servizi agli anziani avveniva direttamente “in natura” all’interno delle famiglie. Oggi, invece, abbiamo i giovani lavoratori che cedono una parte del loro potere di acquisto in denaro (tali sono i versamenti previdenziali) per metterla a disposizione delle persone pensionate, le quali ricevono quindi del denaro (potere di acquisto), per acquistare esse stesse il necessario per vivere. Anche in questo caso si tratta di un miglioramento rispetto al 1718, in quanto gli anziani possono convertire questo denaro nei beni o servizi che ritengono realmente necessari per se stessi, mentre nel 1718 dovevano accontentarsi di quanto potevano offrire i giovani lavoratori della famiglia.

In entrambi i casi, però, non è cambiata la sostanza: i giovani lavorano e producono per mantenere gli anziani.

La creazione di “fondi pensione”, denaro accumulato che il pensionato utilizzerà in futuro, non è di per sé essenziale, in quanto la produzione di beni/servizi da parte dei giovani ed il consumo da parte degli anziani avviene ora, non fra 20 anni.
Siccome oggi i fondi pensione non sono altro che registrazioni contabili su dei computer, se ci fosse una guerra con uso di bombe elettromagnetiche, quelle registrazioni scomparirebbero. Ma non per questo risulterebbe impossibile trovare un modo affinché, in futuro, parte della produzione dei giovani lavoratori venga utilizzata per il mantenimento degli anziani pensionati.

Se anche, in quella guerra, venisse distrutto tutto il denaro in circolazione, basterebbe emettere del nuovo denaro per pagare lo stipendio dei giovani lavoratori ed obbligarli a versarne una parte all’INPS, che lo utilizzerà per pagare agli anziani l’assegno mensile della pensione, il che a sua volta consentirà ai pensionati di acquistare i beni e servizi loro necessari, prodotti dai giovani lavoratori.

La convertibilità del denaro in beni e servizi dipende dalla disponibilità di beni e servizi sul mercato ovvero dalla capacità produttiva.
Ovvero: se avessimo accumulato fondi pensione anche molti cospicui, quei fondi non potrebbero trasformarsi in beni e servizi se non ci fossero giovani che lavorano per produrli, in questo momento.

Esistono paesi al mondo come ad esempio la Norvegia che hanno utilizzato le proprie esportazioni di materie prime per accumulare fondi pensione in valuta estera. In questo caso è possibile che in futuro dei giovani lavoratori esteri accettino quel denaro per mantenere gli anziani pensionati norvegesi. Ma, trattandosi di soggetti esteri, nessuno li potrà obbligare per legge a farlo, come invece avviene all’interno di un paese sovrano.

Il modo migliore per garantire delle pensioni a tutti gli anziani, quindi, è fare in modo di garantire un lavoro a tutti i giovani lavoratori. Facendo in modo, per quanto possibile, che si tratti di lavoro ad alto valore aggiunto, per massimizzare la qualità oltre alla quantità.

Questo significa che la prima cosa da fare per un governo che intenda tutelare i pensionati è un piano economico di piena occupazione, che consenta di massimizzare la produzione di beni e servizi, in modo che ce ne sia abbastanza per mantenere tutta la popolazione, compresi gli anziani.
Che il Tito Boeri di turno non ci prenda in giro parlando di problemi sulla copertura pensionistica (invocando addirittura l’arrivo di lavoratori stranieri) fino a che in Italia non si sia consentito a tutti i giovani di avere un posto di lavoro serio, che valorizzi le loro capacità professionali, mettendole a frutto per mantenere se stessi, le proprie famiglie e gli anziani del paese.

Secondo questa logica il primo investimento del paese per il futuro deve necessariamente essere il mettere al mondo dei figli (almeno 2,1 figli per donna), farli crescere in salute, in modo che possano contribuire, anche con il loro lavoro, al mantenimento dei futuri anziani.
Ogni politica che non vada in questa direzione è, quindi, una politica molto poco lungimirante.

Dopo di che, evidentemente, se l’età media della popolazione aumenta, aumenterà il numero di pensionati da mantenere, il che richiederà inevitabilmente ai giovani maggiori sacrifici, cedendo una parte maggiore del loro reddito per mantenere i molti anziani.
La soluzione di posticipare l’età di pensionamento, sulla base di un calcolo matematico (quantità di versamenti dei giovani in rapporto al numero di pensionati ed alla durata media di vita in pensionamento) non ci trova d’accordo.
Infatti se anche un calcolo matematico stabilisse che un lavoratore debba andare in pensione all’età di 69.3 anni, nella realtà quella persona non sarà concretamente in grado di lavorare e di produrre come un giovane lavoratore, a motivo dello stato delle sue energie fisiche e del suo stato di salute.
Le persone non sono dei parametri matematici!

Probabilmente la migliore soluzione sarebbe ritornare proprio al metodo del 1718.
In quel tempo le persone non andavano in pensione al compimento di una certa età. I lavoratori anziani continuavano a lavorare fino a che erano in grado di farlo, magari rinunciando gradualmente ad attività troppo faticose e cimentandosi in attività fisicamente meno impegnative, ma comunque utili per la famiglia.
La situazione, quindi, variava da persona a persona. Il senso di responsabilità verso la famiglia consentiva sempre di trovare un certo equilibrio.
Siamo convinti che una soluzione del genere, con una graduale uscita dei pensionati dal mondo del lavoro, sarebbe attuabile anche oggi, nella “grande famiglia” di 60 milioni di persone, ricordandoci sempre che le persone non sono dei numeri. In questo modo le persone sarebbero produttive “per quanto possibile” e “fino a quando possibile”, dando un loro contributo alla produzione nazionale di beni e servizi.

Un’altra strada da perseguire per la sostenibilità del sistema pensionistico è quella di “non esagerare” con le retribuzioni pensionistiche.
La pensione dovrebbe consentire agli anziani di vivere serenamente, potendosi curare se necessario, avendo un tetto sotto cui dormire, il necessario per nutrirsi e vestirsi.
Un pensionato che disponga di un’abitazione di proprietà e che goda del servizio sanitario nazionale gratuito potrebbe serenamente vivere con una pensione di 1’000-1’500 euro, a secondo del costo della vita (che varia in rapporto alle diverse aree del paese).
Nel caso ci sia anche un affitto da pagare, sarà necessario erogare anche questo importo. Nulla di più.
Con l’attuale sistema “contributivo”, invece, le persone che, avendo maggior reddito, hanno versato di più nel corso della vita, arriveranno a percepire una pensione maggiore.
E’ comprensibile di dare un po’ più di pensione a coloro che più hanno lavorato, contribuendo maggiormente al sostentamento del sistema, ma non è accettabile che il pagamento di pensioni eccessive, superiori al 1’500 euro al mese (più l’affitto) impedisca di dare una pensione minima dignitosa (800 euro al mese più l’affitto, ad esempio) a molti altri pensionati.

Come dicevamo sopra, l’utilizzo di un sistema “contributivo”, ad accumulo di capitale, non ha alcuna ragione di esistere, non apportando alcun vantaggio alla sostenibilità del sistema.
Anzi, il fatto che si costituiscano dei fondo finanziari il cui valore deve essere conservato per il futuro, crea le condizioni per cui alcune persone avranno il potere di investire questi capitali, con un potenziale rischio di perderli, ma anche con il rischio di utilizzarli in attività finanziariamente redditizie, che danneggiano l’ambiente o che provocano guerre.

Concludiamo mettendo in evidenza una caratteristica positiva del sistema di welfare del 1718: in quel tempo i giovani lavoratori delle famiglie si facevano carico anche del mantenimento dei bambini della famiglia.
Se la nostra società si è evoluta, con il sistema pensionistico, mutualizzando il mantenimento degli anziani non più in grado di lavorare, perché siamo rimasti ai livelli del 1718, senza mutualizzare il mantenimento dei bambini?
Oggi in Italia ogni famiglia è tenuta a mantenere da sola e crescere i propri figli. Ma se, come abbiamo visto sopra, i bambini sono il migliore investimento per il nostro futuro (anche pensionistico), i bambini sono il futuro di tutti e, di conseguenza, tutti dovrebbero contribuire, almeno economicamente, al loro mantenimento.
Il prossimo vero miglioramento evolutivo del sistema pensionistico non sarà l’ennesimo ritocco agli importi dei versamenti INPS o sull’età di pensionamento, ma sarà quando il sistema pensionistico prevedrà anche un assegno mensile per ogni bambino.

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