La teoria umorale di Ippocrate e la teoria “bocconiana” sull’inflazione

di Davide Gionco

La medicina nell’antichità

La medicina dell’antica Grecia aveva un concetto di salute basato sulla teoria dei “quattro umori”, risalente al padre della professione medica, Ippocrate di Coo (460-377 a.C.) e sviluppata da Galeno di Pergamo (129-201).

Si pensava che la salute dipendesse dall’equilibrio fra i 4 umori: il sangue (nel fegato), il flegma (ovvero il catarro, nei polmoni), la bile gialla (nella cistifellea) e la bile nera (nella milza).

Questi umori venivano condizionati dal caldo e dal freddo, dando origine, in varie combinazioni, alle varie malattie.
I medici si formavano studiando Ippocrate e Galeno nelle università e si autoproclamavano l’élite della professione medica. Imparavano a effettuare diagnosi del sangue, delle feci, delle urine, determinando il “bilancio degli umori” che poi portava alla terapia fatta di salassi per “ripristinare l’equilibrio degli umori” o alla somministrazione di sostanze come erbe e unguenti ritenuti affini all’umore malato.

Quando una cura non funzionava, c’erano sempre delle spiegazioni “ex post” che scaricavano la responsabilità sulla errata “reazione umorale” della persona malata.
Quando il malato –per fortuna a volte succedeva- guariva

Un grave colpo di grazia alla credibilità di questa “élite di medici” fu dato dalla Peste Nera, che fra il 1347 e il 1352 fece morire in tutta Europa un terzo di tutta la popolazione, in quanto colpì contemporaneamente persone di ogni categoria, dimostrando che la malattia nel dipendeva dalla combinazione di umori delle persone.
Tuttavia, in mancanza di meglio, questo concetto di medicina andò avanti ancora per secoli, sostanzialmente almeno fino alla fine del XIX secolo, quando le scoperte scientifiche di Louis Pasteur (1822-1895), che scoprì la presenza di microorganismi nel corpo umano, rivoluzionò la scienza medica.

In cosa consisteva l’errore di fondo dei medici che per secoli “curarono” in modo bizzarro e improbabile i nostri antenati?
Certamente mancavano di informazioni dettagliata sul funzionamento del corpo umano e delle malattie, come li abbiamo oggi. Ma mancavano soprattutto di un metodo razionale e scientifico.
Anziché piegarsi umilmente ad analizzare la realtà, stabilendo correlazioni logiche fra cause e conseguenze, si fidavano ciecamente dell’IPSE DIXIT di Aristotele (nelle conoscenze scientifiche) e  Ippocrate e Galeno (nelle conoscenze mediche).
L’autorità di chi aveva insegnato quelle conoscenze mediche non consentiva di metterle in discussione, neppure nei casi in cui i fatti reali e la logica ne dimostrassero l’infondatezza.

Le università continuarono per secoli ad insegnare quelle teorie e per secoli non ci furono medici laureati che non fossero convinti della validità di quelle teorie, i quali deridevano o quantomeno guardavano con sufficienza, o con diffidenza, coloro che tentassero un approccio più razionale alla materia.

Ma cosa c’entra la storia della medicina con l’inflazione?

 

L’inflazione, la più iniqua delle tasse

Oggigiorno è diffusione comune che l’inflazione, fenomeno economico più propriamente chiamato “indice di aumento dei prezzi”, sia un fenomeno assolutamente negativo, la “più iniqua delle tasse” (Luigi Einaudi), causato da governi irresponsabili che per guadagnare un facile consenso politico ordinano alla banca centrale, posta sotto controllo governativo, di stampare quantità folli di denaro, provocando un aumento incontrollato dei prezzi e riducendo la moneta a carta straccia.

Degli effetti dell’inflazione sull’economia parleremo in uno dei prossimi articoli. Per il momento limitiamoci a comprendere meglio il fenomeno.

Effettivamente esistono casi storici di iperinflazione, fra i quali il più famoso probabilmente è quello della Repubblica di Weimar (la Germania del primo dopoguerra) fra il 1921 e 1923, in cui si arrivò a stampare banconote da 500 miliardi di marchi, con un cambio rispetto al dollaro di 4’200 miliardi a 1.


Una banconota tedesca dei tempi della Repubblica di Weimar

Ma le cose stanno veramente così? Oppure siamo di fronte ad una versione moderna della “teoria dei quattro umori”? Ovvero a persone che guardano i fenomeni senza comprenderne le cause, per poi formulare teorie strampalate?

Ad esempio qualcuno, osservando che quando piove molte persone utilizzano l’ombrello, potrebbe elaborare una teoria per la quale l’utilizzo degli ombrelli sia la causa della pioggia, in modo analogo a quando l’umanità vedeva il sole sorgere ad oriente e tramontare ad occidente, da cui si concludeva che fosse il sole a girare intorno alla Terra.
Solo la conoscenza della logica dei fenomeni può portarci a comprenderne le vere cause, mentre la semplice osservazione unita alla mancanza di conoscenze può portare a conclusioni totalmente sbagliate.

Proviamo ad esaminare razionalmente la questione “inflazione”, senza fidarci ciecamente dell’IPSE DIXIT di coloro che si auto-proclamano “economisti” come nel Medioevo si proclamavano “medici” i seguaci di Ippocrate e di Galeno.

 

I meccanismi di aumento dei prezzi

Il termine “inflazione” deriva dal latino inflatio, sostantivo a sua volta derivato dal verbo inflare = “soffiare dentro, gonfiare”. Il significato in termini economici ci è arrivato dagli USA, dove alcuni economisti constatarono che quando circolava molto più denaro rispetto al passato (ad esempio nella Germania del 1923), i prezzi delle merci tendevano a salire, da cui l’idea che l’aumento dei prezzi fosse dovuto ad eccessiva emissione di denaro che “gonfiava” il mercato di liquidità, causando l’aumento dei prezzi.

In realtà il termine è fuorviante, in quanto vorrebbe indicare già nella propria semantica la causa del fenomeno, senza neppure porsi la domanda se fosse stato l’aumento dei prezzi a causare la maggiore emissione di denaro o se fosse stata la maggiore emissione di denaro a causare un aumento dei prezzi. Un po’ come nella teoria della pioggia e degli ombrelli.

Da cosa è causata realmente l’inflazione?

La risposta è semplice per ciascuna persona capace di ragionare sui fenomeni.
Il tasso di inflazione viene calcolato sulla base di un “paniere ponderato” di beni e servizi che rappresentano il consumo medio di una famiglia. Tale “paniere” rappresenta il valore costante nel tempo.

Il valore che cambia nel tempo è quello del denaro, che si svaluta rispetto al paniere portando ad un aumento dei prezzi.

L’aumento dei prezzi viene rilevato, in Italia dall’ISTAT, su base statistica, facendo una media ponderata dei prezzi di beni e servizi su tutto il territorio nazionale.

Per il momento non si denota ancora nessun legame con una eventuale eccessiva emissione di denaro: l’inflazione è l’aumento dei prezzi, ma chi decide i prezzi?

Ovviamente i prezzi li decidono i venditori: commercianti, professionisti, erogatori di servizi, ecc, i quali a loro volta aumentano i prezzi solo se ritengono necessario o possibile aumentarli.
Ad esempio un erogatore di servizi in monopolio, come ad esempio le società private che gestiscono le autostrade, sanno potere aumentare i prezzi senza temere di perdere i clienti.
La situazione è un po’ più difficile per un panettiere, il quale sa che se aumentasse i prezzi i clienti si recherebbero dai concorrenti. Tuttavia il panettiere potrebbe trovarsi obbligato ad aumentare i prezzi a causa di aumenti delle spese di produzione (farina, corrente elettrica per il forno, affitto dei locali, tasse, ecc.).
La decisione sui prezzi praticati dai venditori è sempre una mediazione fra necessità (costi di produzione) e possibilità (rischio di perdere i clienti).

Effettivamente se vi fosse il caso di una panetteria di successo, che non teme di perdere clienti neanche aumentando i prezzi, il panettiere proverebbe ad aumentare i prezzi, fino al punto in cui la riduzione di clienti diventasse inaccettabile.
In alternativa il panettiere potrebbe semplicemente decidere di installare un forno in più, assumere del personale ed aumentare la produzione di pane, sempre allo stesso prezzo, aumentando comunque i propri utili e senza il rischio di perdere i propri clienti fidelizzati.

Fino ad ora ancora nessuna relazione con eventuali variazioni nelle emissioni di denaro, con le quali il panettiere ed i gestori di autostrade non hanno alcun tipo di relazione.

 

La teoria bocconiana sull’inflazione

La teoria “bocconiana” sulle origini dell’inflazione, che definiamo tale per il fatto di essere stata ripetuta migliaia di volte su tv e giornali da sedicenti economisti “autorevoli” per il fatto di essersi formati presso l’Università Bocconi di Miliano, sostiene che l’eccessiva emissione di denaro metterebbe nelle tasche dei cittadini molto denaro, il che farebbe aumentare la domanda di beni e servizi e che l’aumento di domanda porterebbe all’aumento dei prezzi.

Proviamo ad immaginare una situazione reale.
Improvvisamente un governo irresponsabile ordina alla banca centrale di stampare molto denaro e lo utilizza per aumentare lo stipendio di tutti i dipendenti pubblici, assumendone anche di nuovi, in modo da assicurarsi la vittoria alle successive elezioni.
La conseguenza sarà che 30 milioni di lavoratori si troverebbero – esageriamo! – con 2’000 euro al mese in più di stipendio, corrispondente ad una emissione monetaria di 720 miliardi, pari al 45% del PIL italiano.
Che cosa ne farebbero quegli italiani di quel denaro?
E’ piuttosto improbabile che si rechino dal panettiere ordinando, ogni giorno, 3 kg di pane in più, per il solo fatto di disporre di più denaro. Le vendite di pane, e di beni di prima necessità, non aumenterebbero, anche se molti italiani potrebbero permettersi di acquistare beni di migliore qualità.
Le tariffe delle autostrade potrebbero aumentare, ma senza esagerare, per non causare la perdita di consenso da parte del governo.

L’aumento di disponibilità di denaro porterebbe ad un aumento della domanda interna, che a sua volta porterebbe a sua volta ad un aumento della produzione, con l’impiego di persone prima disoccupate e di nuovi immigrati. Nulla che possa fare impennare i prezzi in modo incontrollato.

Qualcuno potrebbe pensare di smettere di lavorare, pensando di poter vivere con il solo reddito del coniuge.
Altri potrebbero pensare di fare investimenti immobiliari, facendo salire il prezzo degli immobili o aumentare le richieste di prodotti di lusso.
In questi casi si potrebbe effettivamente avere un aumento dei prezzi, essendo diminuita l’offerta (meno lavoratori) ed aumentata la domanda.
Tuttavia l’aumento temporaneo dei prezzi ridimensionerebbe il potere d’acquisto degli italiani, ponendo fine ai benefici dei 2’000 euro aggiuntivi ogni mese.

Aumenterebbero le importazioni di beni dall’estero. Se avessimo una moneta sovrana, e non l’euro, questo causerebbe una svalutazione della nostra moneta, rendendo via via sempre più costosi i prodotti stranieri, fino a vanificare gli effetti degli aumenti di stipendio. Con la moneta unica la questione è tecnicamente più complessa (Target 2, tensioni con gli altri paesi dell’area euro, ecc.), ma alla fine il risultato sarebbe lo stesso.

In definitiva non si avrebbe in nessun caso una iperinflazione incontrollata, ma solo degli aumenti temporanei dei prezzi fino al riequilibrio fra domanda di beni o servizi, la capacità produttiva del paese e gli scambi con l’estero.

I beneficiari dei 2’000 euro al mese aggiuntivi potrebbero anche decidere di risparmiare la parte di denaro non necessaria o di investirla in prodotti finanziari, i quali non rientrano nel paniere del calcolo dell’inflazione.

La logica dimostra che non è possibile innescare una iperinflazione unicamente stampando troppo denaro per un certo periodo (nella Repubblica di Weimar questo avvenne nel giro di pochi mesi), in quanto si tratta di un meccanismo che si auto-riequilibra. Se si stampa troppo denaro e la domanda aumenta, i prezzi aumentano ed annullano gli effetti della maggiore quantità di denaro. E il processo si arresta nel momento in cui si cessa di stampare troppo denaro.

A quel punto un eventuale governo che pensasse di guadagnarsi in questo modo il consenso degli elettori farebbe una figura meschina, perdendo il consenso e moderando gli eccessi di emissione di denaro.

Concludiamo quindi constatando che la teoria “bocconiana” sulle cause dell’inflazione si rivela illogica e infondata, del tutto analoga alla teoria della pioggia e degli ombrelli.

La teoria bocconiana si fonda su alcuni casi storici in cui effettivamente l’iperinflazione fu associata ad una incontrollata emissione di moneta, ma creando una teoria generale partendo da dei casi particolari, senza neppure analizzare il fenomeno per comprendere quali furono le cause e le conseguenze.

Anche i medici del Medioevo, con la teoria dei quattro umori, facevano lo stesso.
Siccome in alcuni casi dei malati sottoposti alle cure dei medici del tempo erano, nonostante tutto, riusciti a guarire, i medici ritenevano che la validità di quelle cure avesse carattere generale. E nessuno osava contestarlo.
Nei casi in cui i malati non guarivano c’era sempre “un’altra ragione” per spiegarlo.

 

L’iperinflazione della Repubblica di Weimar

Analizziamo ora il famoso caso di iperinflazione della Repubblica di Weimar.

Alla fine della prima guerra il 28 maggio 1919 fu firmato dalla Germania, sconfitta, il Trattato di Versailles, in cui dovette accettare di pagare ai vincitori (in particolare a Francia e Gran Bretagna) una indennità di guerra pari a 226 miliardi di marchi oro, corrispondenti a 846 miliardi di dollari attuali (2018) oltre a cedere ai vincitori tutte le proprie colonie. L’importo fu poi ridotto a 132 miliardi di marchi-oro nel 1921, restando comunque elevatissimo, soprattutto per un paese in quelle condizioni.
L’importo da pagare, unito alla mancanza di un piano di sviluppo economico della Germania, anch’essa provata dalla guerra, rendeva sostanzialmente impossibile il pagamento del debito, che per la cronaca è stato estinto il 3 ottobre 2010.
L’economista John Maynard Keynes, nella sua pubblicazione The economic consequences of peace, aveva duramente criticato quel trattato, in quanto avrebbe inevitabilmente portato a nuovi conflitti, cosa che avvenne puntualmente 20 anni dopo, con lo scoppio della seconda guerra mondiale.

La Germania, privata delle sue colonie, con un sistema produttivo distrutto dalla guerra, privata delle riserve d’oro, era sostanzialmente obbligata ad esportare una parte importante delle proprie materie prime e della propria produzione interna per pagare le “rate” dell’enorme debito di guerra.

Fin da subito la Germania non riuscì ad onorare i pagamenti del debito. Come risposta la Francia e il Belgio occuparono nel 1923 il bacino della Ruhr per impadronirsi direttamente delle riserve di carbone (al tempo principale fonte di energia).

La richiesta di materie prime, non più disponibili, da parte dell’industria tedesca, come anche la scarsità strutturale di beni di prima necessità, essendo la produzione interna insufficiente ad onorare nello stesso tempo i debiti di guerra e la domanda interna, portò ad un aumento incontrollato dei prezzi, in quanto le poche merci disponibili venivano sostanzialmente “messe all’asta” al miglior offerente.

Di conseguenza aumentò la richiesta di denaro sia da parte delle imprese che da parte delle famiglie per potersi comperare le poche merci disponibili. La stampa di papiermark di tagli sempre maggiori fu quindi la conseguenza inevitabile della insaziabile richiesta di denaro da parte del mercato, la quale, evidentemente, non poteva risolvere i problemi strutturali che stavano alla base.

Nel 1923 1 kg di pane arrivò a costare 400 miliardi di marchi e per acquistare merci di una certa importanza era necessario trasportare le banconote con le carriole.

Le persone più colpite dalla iperinflazione non furono i poveri, che non avevano denaro da perdere e vivevano del lavoro quotidiano, ma la classe media che perse tutti i propri risparmi. I ricchi non furono particolarmente colpiti, in quanto persero la liquidità, ma mantennero la ricchezza tramite investimenti immobiliari.

La situazione ebbe fine solo con la creazione di una nuova valuta, il rentenmark, legata al valore ipotecario di terreni e merci industriali (di oro non ce n’era), ma soprattutto grazie ad un piano finanziario di aiuti ideato dall’americano Charles Dawes ed una successiva ulteriore riduzione dei debiti di guerra.

Quindi non ci fu alcuna follia di un governo irresponsabile che stampava denaro in modo scriteriato, ma solo ragione strutturali insormontabili, una volta risolte le quali l’inflazione ritornò ad essere sotto controllo.

 

Altri casi di inflazione e di non-inflazione

Altri casi di iperinflazione citati dai bocconiani sedicenti “esperti di questioni monetarie”, come quello famoso dello Zimbabwe o quello attuale del Venezuela, sono tutti, senza eccezioni, sempre stati causati da problemi strutturali dell’economia e mai dalla “emissione eccessiva” di denaro da parte delle banche centrali.

Analizziamo anche il caso dell’Italia negli anni 1970-1980, quando molti di noi ricordano una inflazione che salì fino al 20% annuo.

Se confrontiamo l’andamento dell’inflazione in Italia con l’andamento del prezzo del petrolio, notiamo che i 2 picchi di inflazione del 1974 e del 1980 corrispondono perfettamente ai 2 picchi di aumento del petrolio del 1973-1974 (guerra del Kippur) e del 1979-1980 (rivoluzione iraniana e guerra Iran-Iraq).

L’Italia era un paese industrializzato che dipendeva fortemente dal petrolio per i suoi fabbisogni energetici, molto più di altre nazioni (Francia, nucleare; Germania, carbone). Per questa semplice ragione l’economia italiana risentì, più di altri, dell’aumento del prezzo del petrolio. Peraltro l’aumento dei prezzi non comportò neppure un aumento di emissione di nuove lire (tramite il meccanismo del deficit pubblico).

Non si notano picchi negativi di deficit né nel 1974, né nel 1980. Anzi, gli anni di maggiore deficit pubblico coincidono con gli anni di riduzione del tasso di inflazione, a partire dal 1982.

Questi dati dimostrano che la teoria bocconiana “emissione di eccessiva di denaro = maggiore inflazione” non è per nulla verificata.

Un ultimo fenomeno che analizziamo è la situazione degli ultimi anni dell’Eurozona, che la BCE che, tramite il Quantitative Easing, ha immesso nel mercato europeo dal 2014 ad oggi circa 12’000 miliardi di euro (oltre l’80% del PIL europeo), senza riuscire a far salire il tasso di inflazione medio nell’Eurozona al di sopra del 2%.


In blu la quantità di denaro M3 emessa dalla BCE, in milioni di euro.
In nero l’andamento del tasso di inflazione.

 

Possiamo quindi concludere che la teoria bocconiana sulla emissione di denaro che fa aumentare l’inflazione ha lo stessa validità della teoria dei quattro umori di Ippocrate di Coo e Galeno per la cura delle malattie.

A questo punto chiediamoci sinceramente per quali ragioni chi ha il potere di emettere moneta, non esistendo il rischio di eccessiva inflazione, né tantomeno di iperinflazione, non assegni questa moneta agli stati, in modo che la utilizzino per politiche di piena occupazione, aumentando la spesa pubblica e riducendo la pressione fiscale a livello sostenibili.

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