La sentenza sulla nave Amistad e la fine dello schiavismo negli USA

di Davide Gionco

I problemi politici non si possono risolvere con le sentenze giudiziarie e gli USA dovettero attendere fino al 19 luglio 1862, con Abraham Lincoln, l’atto formale che vietava la schiavitù su tutto il territorio federale.
Tuttaviaa volte ci sono sentenze giudiziarie che, richiamandosi ai principi della Costituzione, ricordano a tutti i fondamenti giuridici di cui ci si era da tempo dimenticati. E quelle sentenze fanno opinione, anche politica.

Questo è il caso della famosa sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America che fu pronunciata il 9 marzo 1841.

Ancora durante la prima metà del XIX secolo  la Spagna praticava il commercio di schiavi dalla costa occidentale africana e le proprio colonie in America.
Uno dei principali porti di sbarco degli schiavi era a L’Avana, a Cuba.
I mercanti di schiavi, al fine di ridurre al minimo le spese legate al commercio, tenevano gli schiavi ammassati e incatenati sulle navi in spazi ristretti, nutrendoli poco e male. A volte, come nel caso della nave Amistad che fu oggetto della vicenda, utilizzavano persino navi progettate per il trasporto di merci, e non di persone, quindi ancora meno adatte ad offrire agli schiavi delle condizioni sopportabili per il viaggio.
Nel giugno del 1839, trasportati illegalmente dalla nave portoghese Tecora, giunsero a L’Avana 56 schiavi catturati in Sierra Leone, i quali vennero comprati da degli spagnoli che, a loro volta, li imbarcarono sulla nave “Amistad’ per poi venderli ai loro clienti nella vicina città cubana di Puerto Principe. Il 2 luglio 1839, durante questo secondol viaggio in mare, alcuni schiavi riuscirono a liberarsi e ci fu un ammutinamento. Presero il controllo della nave e  ordinarono all’equipaggio spagnolo di cambiare rotta per riportarli in Africa, naturalmente senza avere la minima idea di dove si trovassero e di dove e quanto distante fosse l’Africa. I superstiti dell’equipaggio spagnolo, dopo aver seguito, obbligati dagli ammutinati, una rotta verso nord, decisero di approfittare dell’ignoranza degli africani  e navigarono  lungo le coste americane (la nave non era idonea per una traversata dell’oceano), fino ad essere intercettati da  una nave americana al largo di Long Island.
Gli schiavi vennero tutti catturati e imprigionati dalle autorità statunitensi.
Il 7 gennaio 1840 gli africani vennero sottoposti ad un processo che li giudicò colpevoli di ammutinamento; durante il dibattito processuale non si tenne per nulla conto del fatto che in realtà si trattava di persone originariamente libere e portate in America con la violenza, senza alcun “contratto” di schiavitù che sancisse che fossero una “proprietà” degli spagnoli, e prima ancora dei portoghesi, che li trasportavano.
Un’ondata di indignazione per la vergognosa sentenza si diffuse fra l’opinione pubblica statunitense, in particolare fra le persone che erano contrarie alla schiavitù e che credevano nei principi della Costituzione Americana.
Si formò dunque il Comitato dell’Amistad che impugnò la causa, mise a disposizione dei bravi avvocati e lottò nei successivi gradi di giudizio, sia per ottenere la libertà dei prigionieri, sia per sensibilizzare l’opinione pubblica americana sulla necessità di abolire schiavitù.
Trovarono una persona in grado di fare da interprete dalla lingua del Sierra Leone all’inglese, il che permise di instaurare un dialogo tra gli avvocati difensori e gli africani, ricostruendo i dettagli della vicanda e predisponendo una migliore strategia difensiva nei successivi gradi di giudizio.
In questo modo nel processo di appello la sentenza fu ribaltata e si affermò che gli africani erano stati catturati illegalmente e che quindi l’ammutinamento sulla nave era un loro diritto per riprendere la loro libertà, dopo che erano stati sequestrati, per cui tale azione di legittima difesa non poteva essere condannata.
Questa sentenza, emessa nel gennaio 1840, rigettò anche le sopraggiunte pretese della regina di Spagna Isabella II, la quale pretendeva la restituzione degli schiavi, in quanto “merce spagnola”, facendo riferimento ad un trattato commerciale esistente tra gli Stati Uniti e la Spagna.
Il presidente degli USA del tempo, Martin Van Buren, non intendeva peggiorare i rapporti commerciali con la Spagna e neppure porre fine alla schiavitù, per non andare allo scontro con gli stati ed i molti proprietari terrieri del Sud degli Stati Uniti. Voleva preservare gli interessi economici e commerciali  ed evitare una spaccatura nel paese, oltre che poter essere rieletto presidente per un secondo mandato.
Per queste ragioni Van Buren appoggiò la decisione dell’accusa di fare ricorso contro quella sentenza, portando il caso di fronte alla Corte Suprema il 23 febbraio 1841. Data la rilevanza pubblica, e politica, della questione, come difensore degli africani si schierò nientemeno che l’ex presidente degli Stati Uniti d’America John Quincy Adams, il quale pronunciò un discorse forte ed efficace che faceva riferimento ai valori di libertà proclamati nella Carta Costituzionale degli Stati Uniti d’America. La Corte Suprema si convinse della superiorità del principio di libertà delle persone rispetto al principio di “proprietà commerciale” che veniva applicato agli schiavi e il 9 marzo 1841 confermò l’innocenza degli imputati e dichiarò lo “stato di libertà” degli stessi.
Successivamente  un gruppo di abolizionisti e gli africani stessi messero insieme i fondi necessari per affittare una nave per riportare in Sierra Leone gli ex-schiavi i quali, purtroppo, trovarono il loro villaggio distrutto e le loro famiglie scomparse, a causa di ulteriori razzie perpetrate dagli schiavisti portoghesi.

 

Lascia un commento