La quarta rivoluzione economica travolgerà l’uomo?

di Ilaria Bifarini

Esistono delle innovazioni prodotte dall’uomo i cui effetti sul sistema socioeconomico sono così potenti da essere paragonate a onde d’urto dalla portata rivoluzionaria. Così è successo con la scoperta della macchina a vapore nell’800, con quella dell’elettricità che ha rivoluzionato il 900 e in ultimo il recente avvento di internet, cui ha assistito gran parte di noi, tranne i nativi digitali per i quali è l’unica realtà immaginabile. Ma se le grandi rivoluzioni economiche del passato sembravano rispettare una cadenza centenaria, che permetteva alla società e all’essere umano di adeguarsi al nuovo habitat, nei tempi della precarietà e della decantata resilienza (ormai una sorta di jolly linguistico, in grado di sortire approvazione unanime) il mondo ha cambiato marcia. Eccoci di fronte a un nuovo sovvertimento del modello organizzativo e valoriale della società, mentre cercavamo ancora una fase di assestamento. È la nuova onda rivoluzionaria, che di fatto assomiglia più a uno tsunami, avviato dalla scossa tellurica dell’avvento di Internet: la digitalizzazione e l’automazione su ampio raggio dell’economia, che grazie al Covid e al distanziamento sociale adottato dai governi ha avuto quella carica propulsiva necessaria per la sua esplosione. Come ha affermato con toni entusiastici l’amministratore delegato di Microsoft, Satya Nadella:
“Abbiamo assistito a due anni di trasformazione digitale in due mesi”

Satya Nadella, ad di Microsoft

La spinta propulsiva del lockdown

Obbligati a stare in casa durante il lockdown, i lavoratori hanno fatto ricorso allo smartworking (o meglio sarebbe dire homeworkig), le riunioni attraverso piattaforme virtuali sono divenute la nuova modalità di interazione, bambini e ragazzi sono passati dalla didattica in aula a quella a distanza e i consumatori hanno abbandonato completamente gli acquisti nei negozi fisici a favore di quelli on line, con la sola eccezione per i beni di prima necessità.

Così è successo che piattaforme come Zoom, Microsoft Teams, Google Classroom e il sito di giochi virtuali cinesi Tencent sono diventati il luogo di incontro di milioni di persone, offrendo un’anticipazione di quella che sarà la tanto preannunciata “nuova normalità”.  Twitter, azienda icona e visionaria dell’innovazione, ha prontamente dichiarato di offrire a tutti i dipendenti che vogliano proseguire la modalità di lavoro da casa la possibilità di farlo. Così molti altre aziende si sono mostrate entusiaste per il lavoro a distanza: milioni di lavoratori in tutto il mondo non torneranno più negli uffici.

La tendenza in atto è quella di dematerializzare il rapporto di lavoro, con una preferenza per l’automazione, in cui l’apporto umano è ridotto o addirittura eliminato. Anche nel settore dei servizi, dove finora resisteva una predilezione innata per il contatto umano, con il coronavirus si è rotto ogni tabù e si è accelerato il processo di automazione e digitalizzazione. Le ripercussioni sulla disoccupazione, in un contesto pericoloso di calo della domanda e dell’offerta generato dalle misure di contenimento del Covid, saranno di portata inaudita.

Già nel 2013 due economisti di Oxford in un loro studio (The Future of Employment: how susceptible are jobs to computerisation?, Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne) prevedevano come metà dei posti di lavoro esistenti verrà distrutta entro il 2033. Con la spinta propulsiva indotta dalla gestione della pandemia, la nefasta profezia potrebbe realizzarsi prima, con un aumento ulteriore della disuguaglianza, in un mondo in cui il digitale divide sarà sempre più discriminante e la concentrazione di ricchezza sempre maggiore a fronte di una  povertà diffusa.

Considerando che lo spauracchio della disoccupazione tecnologica non è certo un argomento nuovo – ne parlava già il lungimirante e troppo a lungo dimenticato J. M. Keynes– e rifiutando ogni suggestione luddista, dobbiamo porci due questioni cruciali. Se è vero che tramite il progresso tecnologico abbiamo raggiunto un livello di benessere e produttività tale da non richiedere più l’apporto lavorativo di massa, chi manterrà la popolazione inattiva? e attraverso quali strumenti? Un reddito universale garantito sembrerebbe profilarsi da più voci come la soluzione più percorribile, ma aprirebbe una serie di problematiche circa l’accettazione da parte della classe lavoratrice di contribuire attraverso una maggiore tassazione -nella nostra economia attuale unica possibile fonte.

Inoltre, questione fondamentale dal punto di vista sociale e antropologico: può l’uomo vivere senza lavorare, pur avendo un sostentamento economico? Quali attività alternative potranno occupare la propria vita e inserirlo in un contesto riconosciuto di condivisione e scambio umano? Difficile dare una risposta in un mondo sempre più digitale, in cui la socialità, l’aggregazione e i rapporti dal vivo sembrano venire espulsi in nome del distanziamento sociale ai fini sanitari. Il rischio è che per non incorrere nel senso di inutilità e solitudine si cerchi rifugio nella realtà virtuale, in un rapporto uomo-macchina sempre più stretto e difficile da delimitare.

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