La nonviolenza, il metodo migliore per la risoluzione dei conflitti

La nonviolenza ritorna di attualità, essendo quotidianamente messa in atto dal movimento di protesta ad Hong Kong.
I conflitti fanno parte della natura umana.
La nonviolenza è un modo intelligente e costruttivo di gestire i conflitti, che aiuta ad affrontare le questioni nel merito, senza risolverli con argomenti “di altro tipo”. Anche perché la violenza genera altra violenza, perdendo di vista le ragioni iniziali del conflitto.
La risoluzione violenta di un conflitto crea i presupposti per il ripesentarsi del conflitto, sia perché non è stata risolta la questione di merito del conflitto, sia per il sentimento di vendetta che resta negli sconfitti.
I conflitti, se non possono essere evitati, devono essere risolti.
La scuola della nonviolenza ci presenta molte pratiche “buone e sagge” per risolvere i conflitti positivamente, senza arrivare allo scontro violento, se non fisico, anche solo a parole, che non sono meno dannose.
Buona lettura.


di Mauro Cereghini

Cos’è la NONVIOLENZA

Cominciamo dai termini: nonviolenza è una parola da scrivere unita, perché ha un significato più ampio del solo no alla violenza. La persona più conosciuta per averla sperimentata e insegnata è probabilmente Mohandas Karamchand Gandhi, vissuto in India tra la fine dell’ottocento e la prima metà del secolo scorso. La sua idea di nonviolenza trae origine dalla tradizione indù dell’ahimsa, che non è un semplice divieto ma può essere intesa come agire fondato sulla verità e sull’amore. Essa dunque implica sia l’astensione dal commettere violenze su persone o animali, sia l’impegno ad una vita attiva per migliorare e rendere più giusta la propria società. Un progetto costruttivo dunque, anziché un generico pacifismo passivo.

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La figura di Gandhi è senza dubbio il riferimento etico-filosofico più importante e sta alla base del moderno pensiero nonviolento. Tuttavia radici culturali si trovano in tutte le tradizioni religiose ed in numerosi pensatori dei secoli precedenti. Dal cristianesimo al buddismo, dall’animismo all’islam, in ogni fede è possibile rintracciare elementi che si richiamano alla sacralità della vita, all’amore per gli altri e al rifiuto della vendetta. Ugualmente rilevanti i contributi portati alla nonviolenza da filoni culturali come l’illuminismo, il socialismo, il pensiero liberale o quello anarchico, attraverso intellettuali differenti tra cui Henri de Saint-Simon, Lev Tolstoj, Henry Thoreau e altri.

 

Il Mahatma Gandhi

La formazione di Gandhi parte dai valori antichi dell’induismo, ma ad essi unisce elementi del pensiero occidentale assunti durante gli studi universitari compiuti a Londra. Per questo motivo la studiosa americana Joan Bondurant definisce il suo pensiero “essenzialmente sincretistico”. Il richiamo alla cultura tradizionale indiana gli fa guadagnare un carisma tanto vasto da venir chiamato Mahatma, la grande anima, e da ottenere un’amplissima partecipazione alle azioni da lui promosse. Tuttavia egli riesce anche ad innovare la mentalità comune del suo popolo, come dimostra la lotta a favore degli harijan – gli intoccabili che vivevano ai margini della società.

Gandhi non è un pensatore puro, è piuttosto un attivista che sperimenta sul campo le proprie intuizioni e poi le elabora in regole generali. La sua autobiografia s’intitola infatti “La storia dei miei esperimenti con la verità”. Nei primi tempi il suo impegno si svolge in Sud Africa, dov’era andato a lavorare nel 1893, per rivendicare i diritti della comunità indiana lì immigrata. Nel 1915 rientra in patria e si impegna contro il colonialismo inglese, ma anche contro le ingiustizie sociali e le divisioni religiose interne al suo paese.

Gandhi è insieme un pensatore – profeta per alcuni – ed un politico che interviene direttamente in innumerevoli questioni concrete, dalle relazioni tra stati alla vita di un singolo villaggio o a singoli rapporti interpersonali. In lui infatti si collegano la vita quotidiana e le scelte complessive di una nazione, il vegetarianesimo e la battaglia per i diritti dell’uomo e dei popoli. Sceglie così di vivere in una comunità autogestita – ashram – e di praticare la povertà materiale. Ciò nondimeno fa sentire la sua voce in tutto il mondo, e risulta decisivo nell’ottenere l’indipendenza per l’India.

Il principio cardine di Gandhi è che per raggiungere obiettivi giusti bisogna agire con giustizia e astenersi dalla violenza. “Il mezzo può essere paragonato a un seme – scrive ad esempio – il fine a un albero: tra il mezzo e il fine vi è appunto la stessa inviolabile relazione che esiste tra il seme e l’albero”. La strategia di lotta che si basa su questo principio è definita satyagraha, ossia forte adesione alla verità. Nella sua applicazione pratica il satyagraha diventa un insieme di tecniche per lottare senza violenza, tra cui la protesta simbolica (appelli, manifestazioni, digiuno), la non collaborazione (scioperi, boicottaggi) e la disobbedienza civile, ossia la violazione consapevole e pubblicizzata di una legge.

L’altra idea guida di Gandhi è il sarwodaya, un modello di società nuova basato sulla nonviolenza, l’autosufficienza, l’autogestione e il non accentramento. Il fulcro di questo sviluppo alternativo è il villaggio, che deve produrre da sé tutto il necessario per svincolarsi dalla dipendenza esterna e prevenire almeno parte dei potenziali conflitti con altre società. La sua vita si regola col consenso, e prevede la partecipazione di tutti all’esercizio del potere. La proprietà è collettiva e i compiti sono distribuiti in ugual misura, favorendo la rotazione nel lavoro e l’unione di attività manuale e intellettuale. Da ciò viene il celebre simbolo gandhiano dell’arcolaio, che serve ad ognuno per tessere i propri vestiti.

 

La nonviolenza nella storia

La nonviolenza non nasce con Gandhi, e casi storici di lotte non armate si trovano in tutte le epoche. Nel corso del ventesimo secolo però, grazie al messaggio suo e di altri pensatori contemporanei, la nonviolenza diventa per la prima volta concreto strumento politico oltre che aspirazione etico-morale. La tragedia delle due guerre mondiali e l’ingresso nell’era atomica, infatti, pongono per la prima volta all’umanità la sfida della propria sopravvivenza. Per avere risposte non distruttive ai conflitti tra persone e tra nazioni, alcuni ricercatori attingono al pensiero di Gandhi e di altri classici traducendoli in una nonviolenza ‘scientifica’. Si possono citare tra gli altri Richard Gregg, Gene Sharp, Kenneth ed Elise Boulding, Jean Marie Muller e Johan Galtung, forse il più importante e conosciuto. Dentro la nuova disciplina della peace research si sviluppano studi sulla difesa civile o difesa popolare nonviolenta, sull’azione diretta nonviolenta e più tardi sull’interposizione nonviolenta e la diplomazia popolare.

Parallelamente si sperimenta la messa in pratica concreta dell’ideale nonviolento, che nella seconda metà del ventesimo secolo diventa visibile in molte campagne o movimenti popolari. Si può fare una distinzione tra chi interpreta il messaggio gandhiano soprattutto come invito all’attivismo, lanciando campagne e lotte anche dure e frequenti, e chi invece si concentra sul lavoro paziente e costruttivo del sarwodaya. Sui primi fa presa l’appello di Gandhi a non accettare mai le ingiustizie del mondo, piccole o grandi che siano, e a battersi per modificarle. Alcuni esempi sono il movimento contro la segregazione razziale guidato negli anni cinquanta negli Stati Uniti da Martin Luther King, le campagne per i diritti civili e contro la guerra in Vietnam negli anni sessanta, molte iniziative civiche in tutto l’est Europa per liberarsi dal comunismo, le manifestazioni che portarono alla cacciata del dittatore filippino Marcos nel 1986, le proteste studentesche in Cina nel 1989, o più recentemente buona parte dei movimenti no global tra la fine dello scorso e l’inizio del nuovo secolo.

Non sempre questi casi originano da una esplicita adesione agli ideali gandhiani. A volte la nonviolenza è una via obbligata in mancanza di altri strumenti: è il caso della resistenza albanese in Kossovo negli anni novanta, trascinata allo scontro violento dalla mancanza di sostegno nel mondo. Tuttavia spesso a suggerire e supportare l’azione disarmata vi sono associazioni e reti nonviolente internazionali. In particolare si possono citare le storiche War Resisters International e Movimento Internazionale della Riconciliazione, entrambe nate in Europa dopo la prima guerra mondiale. Ma anche il Servicio Paz y Justicia in America Latina, sorto su principi cristiani e nonviolenti per appoggiare le lotte contro le dittature e per la giustizia sociale. O esperienze più piccole ma ugualmente interessanti, come quella dell’organizzazione Saint Martin in Kenya.

Dall’altra parte invece vi è chi accentua meno l’azione diretta di lotta, preferendo impegnarsi nel lungo periodo per costruire con l’esempio personale e quotidiano una società nonviolenta. Ciò implica la sobrietà negli stili di vita, il lavoro costruttivo per la giustizia sociale, la condivisione comunitaria e la testimonianza individuale ai fini di una graduale conversione dell’umanità. Esempi di questo approccio sono diffusi anzitutto in India, sull’onda dell’insegnamento gandhiano, ma anche in molte altre parti del mondo. Ad esempio la Comunità dell’Arca sorta negli anni quaranta del secolo scorso in Francia su impulso di Lanza del Vasto, i quaccheri presenti in particolare nel mondo anglosassone o le Comunità Emmaus fondate sempre in Francia dall’Abbé Pierre.

 

La nonviolenza in Italia

In Italia la nonviolenza stenta a trovare consensi ampi, stretta com’è tra la diffidenza di buona parte del mondo cattolico per ogni forma di disobbedienza e sovversione, e l’ortodossia comunista che giustifica la violenza in nome della lotta di classe. Vi sono tuttavia delle personalità che si distinguono già a partire dagli anni quaranta, e pur non avendo un seguito di massa diventano punti di riferimento culturale a livello nazionale. In particolare Aldo Capitini, pensatore religioso e politico fuori dagli schemi e animatore di molte iniziative, tra cui la prima Marcia per la pace Perugia – Assisi. Capitini è il primo in Italia a parlare esplicitamente di nonviolenza, come forma di azione per “scendere più nel profondo rispetto al vecchio pacifismo generico e sedentario”.

Altra figura di rilievo è Danilo Dolci, anch’egli impegnato ad intrecciare riflessione teorica e lotta concreta per i diritti sociali e contro le mafie. Nel 1952 Dolci sceglie di vivere in Sicilia ed inizia una serie di digiuni, proteste e azioni positive per combattere l’estremo degrado in cui ancora versa una parte della popolazione. Con gli anni le sue iniziative diventano note in tutto il mondo, e Dolci riflette sui metodi impiegati elaborando la sua pedagogia maieutica (in .pdf).

In ambito ecclesiastico si può ricordare don Primo Mazzolari, autore nel 1955 di “Tu non uccidere”, libro che apre un ampio dibattito sull’idea della “guerra giusta”. Ad esso si ispirano vari altri religiosi come don Lorenzo Milani, che nel 1965 pubblica il celebre “L’obbedienza non è più una virtù”, e padre Ernesto Balducci fondatore della rivista ‘Testimonianze’. In tempi più recenti nella Chiesa italiana hanno parlato di nonviolenza tra gli altri don Tonino Bello, animatore per molti anni di Pax Christi e monsignor Luigi Bettazzi, Vescovo emerito di Ivrea.

Sul piano dell’azione, la campagna che più ha segnato il movimento nonviolento italiano è probabilmente quella per l’obiezione di coscienza al servizio militare. Il primo obiettore del dopoguerra, Pietro Pinna, è incarcerato nel 1949. Ma è negli anni Sessanta che cresce la campagna per il rifiuto della leva obbligatoria, fino ad ottenere nel 1972 la prima legge sul Servizio civile. Negli anni Ottanta si sviluppa una campagna analoga contro le spese militari, mentre si diffondono le manifestazioni popolari per la pace e contro l’installazione di missili nucleari in Sicilia. In tempi più recenti, l’esperienza nonviolenta si riversa all’estero, con i tentativi di interposizione nonviolenta nei conflitti armati dei Balcani, del Medio Oriente o di alcuni paesi africani.

In ambito scientifico è invece scarso lo spazio dato ai temi della nonviolenza nelle università italiane. Tra i pochi nomi da citare Giuliano Pontara, filosofo che però ha vissuto e insegnato in Svezia, Tonino Drago a Napoli, Nanni Salio animatore anche del Centro Studi Domenico Regis a Torino e Alberto L’Abate, che oltre ad insegnare a Firenze si è molto speso in iniziative nonviolente sul campo. Come politico si può ricordare Alexander Langer, tra i fondatori del movimento verde in Italia, che ha introdotto in particolare il tema dei corpi civili di pace e delle connessioni tra modello di difesa e modello di sviluppo.

 

Le prospettive

Nonviolenza vuol dire – come abbiamo visto – tante cose e si applica a molti piani della vita umana. In campo internazionale l’azione nonviolenta continua ad essere una strategia di lotta per rivendicare i propri diritti senza l’uso delle armi, come per la resistenza tibetana guidata dal Dalai Lama. D’altra parte è anche uno strumento con cui volontari disarmati provano ad intervenire dall’esterno nelle guerre moderne, dove il carattere “civile” e identitario rende impotente il solo peacekeeping militare. Due sono le sfide su questo piano: ottenere il sostegno dell’opinione pubblica internazionale, nonostante l’attenzione mediatica catturata più spesso dal sangue e dalla violenza; affrontare l’estremismo terrorista, che aggredisce deliberatamente anche pacifisti disarmati e cooperanti come accaduto in Iraq e Afghanistan.

In campo interno e interpersonale la nonviolenza si traduce nella gestione costruttiva dei conflitti quotidiani. Molte allora sono le possibili azioni di mediazione: sociale, di quartiere, nelle scuole, interculturale, penale ed altre. Si tratta di azioni sicuramente in forte sviluppo, a volte promosse dalle stesse istituzioni pubbliche come, solo per fare un esempio, il Comune di Modena. La sfida per questa componente della nonviolenza è di affiancare agli strumenti di gestione “ordinaria” dei conflitti un’azione più radicale di critica e cambiamento al sistema di vita delle nostre società. Ricollegare i due principi di Gandhi del satyagraha e del sarwodaya, l’azione sul breve e quella sul lungo periodo. Perché la nonviolenza, si diceva in apertura, è qualcosa di più del solo no alla violenza.

 

La Nonviolenza e la gestione dei conflitti
Si possono individuare almeno 5 stili di gestione dei conflitti: (1) fuga-evitamento, (2) competizione, (3) adeguamento, (4) compromesso, (5) collaborazione.
Frequentemente si scopre come la collaborazione sia il metodo più efficace e più capace di dare soddisfazione ai contendenti; alcune volte possono essere utili delle “fughe strategiche”, oppure delle ricerche di compromessi… è importante rilevare comunque che CIASCUNO PUO’ SCEGLIERE LA MODALITA’ DI APPROCCIARSI AD UN CONFLITTO.

La violenza è impedimento, oltre un limite accettabile alla soddisfazione dei bisogni umani essenziali.
La violenza emerge da una situazione iniziale che di per sé non mostra alcun problema: si tratta di una situazione in cui sono presenti almeno due punti di partenza diversi che possono essere caratteristiche, comportamenti o punti di vista di due persone o di due gruppi di persone.

Il modo tradizionale o abituale di comportarsi con questi due diversi punti di partenza è quello che si basa sul modello di comportamento Maggiore/minore (modello M/m): ognuno cerca di presentare la propria caratteristica o il proprio comportamento come migliore di quello dell’altro. Ognuno cerca di avere ragione, di dominare, di vincere, di mettere se stesso in una posizione di superiorità e l’altra persona o gruppo in una posizione di inferiorità.

Le conseguenze di questo modello di comportamento sono i tre meccanismi della violenza:
– violenza contro se stessi o rimozione ed interiorizzazione della violenza/aggressività;
– violenza contro l’altro che per primo ci ha messo in una posizione di inferiorità o escalation della violenza;
– violenza contro una terza parte o catena della violenza.

L’esperimento di Milgram sembra mostrare che la violenza deriva principalmente dall’obbedienza, dall’abdicare alla propria coscienza (che di per sé non vorrebbe la violenza), dal rinunciare alla propria responsabilità.

Dunque LA VIOLENZA NON E’ NATURALE; piuttosto è l’aggressività ad essere naturale, ma l’aggressività non è violenza, è piuttosto combattività, tendenza all’affermazione di sé, assertività; è un fattore energetico di autoconservazione.
La questione diventa allora: E’ POSSIBILE UTILIZZARE QUESTA ENERGIA IN MANIERA NONVIOLENTA?

La NONVIOLENZA non è affatto debolezza, rinuncia, assenza di conflitti.
C’è anzi una bella definizione di Andrea Cozzo: la nonviolenza è l’arte di pensare e condurre un buon conflitto in tutti gli ambiti della vita per la trasformazione sociale e di noi stessi.
I grandi protagonisti storici della nonviolenza hanno condotto conflitti: Gandhi, Luter King, Danilo Dolci, Alberto L’Abate, Don Milani.

Ci limitiamo qui ad esaminare alcuni princìpi pratici della nonviolenza:
Interessi: la regola è il riferimento agli interessi (fondamenti) e non alle posizioni.
Persone: distinguere le persone dai problemi.
Opzioni: pensare a diverse possibilità di azione prima di decidere cosa fare; riflettere non soltanto sul da farsi, bensì su una serie di possibili azioni e contrazioni.
Criteri: badare che il risultato soddisfi criteri vincolanti per tutti.
Verità: la regola è che esistono più verità, la tua, la loro e forse un’altra ancora.
Mezzi: la regola è rispettare l’unione di mezzi e scopi.
Premesse: attenersi a dei principi e costruire su di essi la strategia; perseguire soltanto quegli obiettivi che sono validi sia per se stessi che per l’altra parte, anche se quest’ultima non si comporta allo stesso modo.
Potere: il potere è la capacità di raggiungere i propri obiettivi e non di punire gli altri.

Laddove pare particolarmente difficile trovare un esito soddisfacente , Lederach ha individuato
TRE TIPI DI ACCORDO PER LA RISOLUZIONE DI UN CONFLITTO
1. Accordo di principio
2. Accordo di procedura
3. Accordo frazionato

 

Note:.
La strategia di scelta non viene selezionata a priori dal mediatore, ma sulla base dell’andamento delle trattative.
# Accordo di principio ‡ vari punti concreti ‡ accordo finale
# Problema insolubile ‡ accordo sulla procedura ‡ soluzione finale
# Problema confuso, grande, senza soluzioni ‡ problemi minori, maneggiabili ‡ accordo finale

 


Scheda “Nonviolenza” di Unimondo: www.unimondo.org/Guide/guerra-e-pace/nonviolenza

https://www.unimondo.org/Guide/Guerra-e-Pace/Nonviolenza/(desc)/show

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