La manipolazione politico-mediatica della paura

di Noam Chomsky
16.07.2005

Il ricorso alla paura da parte dei sistemi di potere per disciplinare la popolazione domestica ha lasciato una lunga e terribile scia di spargimenti di sangue e di sofferenza che ignoriamo, a nostro rischio e pericolo.
La storia recente offre molte illustrazioni scioccanti. La metà del XX secolo fu testimone dei crimini forse più terribili dalle invasioni mongole. I più selvaggi furono realizzati laddove la civiltà occidentale aveva raggiunto i suoi più grandi splendori. La Germania era un centro di spicco delle scienze, delle arti e della letteratura, delle borse di studio umanistiche e di altri risultati memorabili.
Prima della prima guerra mondiale, prima che l’isteria anti-tedesca venisse diffusa in Occidente, la Germania era considerata dagli americani esperti di politica come una democrazia modello, che doveva essere emulata dall’Occidente. A metà degli anni ’30, la Germania fu portata in pochi anni ad un livello di barbarie che ha pochi precedenti storici. Ciò fu vero, in particolare, fra i settori più istruiti e civili della popolazione.

Nei suoi straordinari diari della sua vita di ebreo sotto il nazismo e sfuggito alle camere a gas quasi per miracolo, Victor Klemperer scrive queste parole su di un professore tedesco suo amico che aveva molto ammirato, ma che alla fine si era unito al gruppo dei nazisti: “Se un giorno la situazione si invertisse e il destino dei vinti fosse nelle mie mani, lascerei perdere tutta la gente comune e persino alcuni leader, che forse dopo tutto avevano intenzioni onorevoli e non sapevano cosa stavano facendo, ma raccoglierei insieme tutti gli intellettuali ed i professori che si ponevano al di sopra degli altri; li lascerei appesi a dei lampioni per tutto il tempo compatibile con l’igiene pubblica.

La reazione di Klemperer era nel merito e riferita in generale a gran parte della storia come è stata registrata. Eventi storici complessi hanno sempre molte cause. Un fattore cruciale in questo caso fu l’abile manipolazione della paura. La “gente comune” fu spinta alla paura per una cospirazione ebraico-bolscevica finalizzata ad impadronirsi del mondo, mettendo a rischio la sopravvivenza stessa del popolo tedesco. Erano quindi necessarie misure estreme, in “autodifesa”.
E gli stimati intellettuali andarono ben oltre.

Mentre le nubi nere del nazismo si insediavano nel paese nel 1935, Martin Heidegger dipinse la Germania come la nazione “più in pericolo di estinzione” nel mondo, presa dalle “grandi tenaglie” di un assalto contro la stessa civiltà, guidato nella sua forma più cruda da Russia ed America . Non solo la Germania era presentata come la prima vittima di questa barbarie straordinaria, ma la Germania stessa, “la più metafisica delle nazioni“, era anche presentata come responsabile per guidare la resistenza ad essa.

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La Germania si trovava “al centro del mondo occidentale” e doveva proteggere la grande eredità della Grecia classica dall’annientamento, basandosi sulle “nuove energie spirituali che storicamente si dispiegano al di fuori dal centro“.
Le “energie spirituali” continuarono a dispiegarsi in modi che erano abbastanza evidenti quando quel messaggio fu diffuso, al quale lui e altri importanti intellettuali continuarono ad aderire.

Il parossismo del massacro e dell’annientamento non si è concluso con l’uso di armi che potrebbero benissimo portare la specie umana ad un’amara fine. Non dovremmo neppure dimenticare che queste armi, che possono sterminare la nostra specie, sono state create dalle figure più brillanti, umane ed altamente istruite della civiltà moderna, lavorando in isolamento e così estasiate dalla bellezza del lavoro in cui erano state impegnate che, apparentemente, hanno posto scarsa attenzione alle conseguenze: le importanti contestazioni da parte degli scienziati contro le armi nucleari iniziarono nei laboratori di Chicago solo dopo avere portato a compimento il loro incarico nella creazione della bomba, non a Los Alamos, dove i lavori proseguirono sino alla triste fine. E non proprio la fine.

La storia ufficiale dell’Aeronautica americana racconta che dopo il bombardamento di Nagasaki, quando la resa incondizionata del Giappone era oramai certa, il generale Hap Arnold “voleva un finale il più grande possibile“, un’incursione diurna di 1’000 aerei su città indifese giapponesi. L’ultimo bombardiere rientrò alla base proprio quando veniva formalmente ricevuto la comunicazione di resa incondizionata.

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Il capo dell’Aeronautica, il generale Carl Spaatz, preferiva che il “gran finale” fosse un terzo attacco nucleare a Tokyo, ma fu dissuaso. Tokyo era un “bersaglio povero” essendo già stata incenerita nella tempesta di fuoco accuratamente eseguita nel precedente mese di marzo, lasciando sul campo probabilmente 100’000 cadaveri carbonizzati, in uno dei peggiori crimini della storia.

Questi fatti non sono stati presi in considerazione dai tribunali per i crimini di guerra e in gran parte sono stati cancellati dalla storia.
Ormai sono poco conosciuti, al di là dei circoli di attivisti e specialisti. All’epoca furono pubblicamente salutati come un legittimo esercizio di autodifesa contro un nemico crudele che aveva raggiunto il massimo livello di infamia bombardando le basi militari statunitensi nelle sue colonie delle Hawaii e delle Filippine.
Vale forse la pena ricordare che i bombardamenti del Giappone del dicembre 1941 – “la data che vivrà nell’infamia“, nelle parole squillanti di FDR (Franklin D. Roosevelt) – erano più che giustificati dalle dottrine di “autodifesa preventiva”, che prevalevano tra i leader degli odierni “stati illuminati”, gli Stati Uniti e il suo partner britannico.
I leader giapponesi sapevano che le fortezze volanti del B-17 stavano uscendo dalle linee di produzione della Boeing ed erano certamente al corrente delle discussioni pubbliche negli Stati Uniti, che spiegavano come potessero essere usate per incenerire le città di legno del Giappone in una guerra di sterminio, volando dalle basi delle Hawaii e delle Filippine: “bruciare il cuore industriale dell’Impero con attacchi di bombardamenti contro i cumuli di bambù brulicanti di formiche“, come raccomandò il generale dell’aeronautica in pensione Chennault nel 1940, una proposta che “semplicemente deliziava” il presidente Roosevelt.
Evidentemente questa fu una ragione per bombardare [preventivamente] le basi militari nelle colonie statunitensi molto più convincente di qualsiasi evocazione di Bush & Blair e dei loro compari nell’attuazione della “guerra preventiva”, accettata, con riserve tattiche, in tutto il mainstream degli articoli di opinione.

Il confronto, tuttavia, è inappropriato. Coloro che abitano “cumuli di bambù brulicanti di formiche” non hanno diritto a emozioni come la paura. Tali sentimenti e preoccupazioni sono prerogative solo dei “ricchi che dimorano in pace nelle loro abitazioni“, nella retorica di Churchill le “nazioni soddisfatte, che non desideravano nulla di più per loro di quello che avevano” ed alle quali, quindi, “deve essere affidato il governo del mondo“, affinché vi sia la pace, un certo tipo di pace, in cui i ricchi devono restare liberi dalla paura.

Quanto sicuramente i ricchi debbano essere protetti dalla paura viene illustrato per iscritto da studiosi e stimati professori delle nuove dottrine di “autodifesa preventiva” elaborate dai potenti.
Il contributo più importante con una certa profondità storica è di uno dei principali storici contemporanei, John Lewis Gaddis della Yale University, il quale fa risalire la dottrina Bush al suo eroe intellettuale, il grande stratega John Quincy Adams. Nella parafrasi sul New York Times, Gaddis suggerisce che la proposta di Bush per la lotta al terrorismo pone le sue radici “nella nobile tradizione idealistica di John Quincy Adams e di Woodrow Wilson“.

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Secondo il documento di stato che giustifica la conquista della Florida da parte di Andrew Jackson nella Prima Guerra dei Seminole del 1818, la guerra era giustificata dall’autodifesa, sosteneva Adams.
Gaddis concorda sul fatto che i motivi erano legittimi problemi di sicurezza. Nella versione di Gaddis, dopo che la Gran Bretagna aveva saccheggiato Washington nel 1814, i leader statunitensi avevano riconosciuto che “l’espansione è la strada per la sicurezza” e quindi avevano conquistato la Florida, una dottrina ora – giustamente (sostiene Gaddis) – estesa da Bush a tutto il mondo.

Gaddis cita le giuste fonti accademiche, principalmente lo storico William Earl Weeks, ma omette ciò che dicono veramente.
Possiamo imparare molto sui precedenti delle attuali dottrine e dell’attuale consenso, osservando ciò che Gaddis omette.
Weeks descrive dettagliatamente ciò che Jackson stava facendo nella “manifestazione di omicidi e saccheggi, nota come Prima Guerra dei Seminole“, che era solo un’altra fase del suo progetto di “rimozione o eliminazione dei nativi americani dal Sud-Est“, in corso da molto prima del 1814. La Florida era un problema, sia perché non era stata ancora incorporata nell’impero americano in espansione, sia perché era un “paradiso per indiani e schiavi in ​​fuga … in fuga dall’ira di Jackson o dalla schiavitù“.

Vi fu in effetti un attacco indiano che Jackson e Adams usarono come pretesto: le forze statunitensi avevano cacciato una banda di Seminole dalle loro terre, uccidendone molti e radendo al suolo il loro villaggio. I Seminole si vendicarono attaccando una nave di rifornimenti sotto comando militare. Cogliendo l’occasione Jackson “intraprese una campagna di terrore, devastazione e intimidazione“, distruggendo villaggi e “fonti di cibo in uno sforzo calcolato per infliggere la fame alle tribù, che hanno cercato rifugio dalla sua ira nelle paludi“. Quindi le cose continuarono, portando al famoso documento di stato di Adams, che sosteneva l’aggressività non provocata di Jackson per stabilire in Florida “il dominio di questa repubblica sulla base odiosa di violenza e spargimenti di sangue“.

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Queste furono le parole dell’ambasciatore spagnolo, una “descrizione dolorosamente precisa“, scrive Weeks. Adams “aveva consapevolmente distorto, dissimulato e mentito sugli obiettivi e sulla condotta della politica estera americana sia al Congresso che alla popolazione“, continua Weeks, violando gravemente i suoi principi morali proclamati, “difendendo implicitamente lo sterminio degli indiani e la schiavitù“.
I crimini di Jackson e Adams “dimostrarono che era un preludio ad una seconda guerra di sterminio contro i Seminole“, i cui superstiti o fuggirono ad Ovest, per subire in seguito lo stesso destino, “o furono uccisi o costretti a rifugiarsi nelle fitte paludi della Florida”.
Oggi, conclude Weeks, “i Seminole sopravvivono nella coscienza nazionale come mascotte della Florida State University“, un caso tipico ed istruttivo…
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La struttura retorica poggia su tre pilastri (Weeks):

  • L’assunzione dell’esclusiva virtù morale degli Stati Uniti
  • L’affermazione della sua missione di riscattare il mondo, diffondendo i suoi professati ideali dell’American way of life
  • La fede nel “destino divinamente ordinato” della nazione.

Il quadro “teologico” annulla il dibattito ragionato e riduce le questioni politiche ad una scelta tra il Bene e il Male, riducendo in questo modo le minacce alla democrazia.
I critici possono essere respinti come “anti-americani”, un concetto interessante preso in prestito dal lessico del totalitarismo.
E la popolazione deve raccogliersi sotto l’ombrello del potere, nel timore che il suo stile di vita e il suo destino siano in pericolo imminente…”

 


Tratto da:
https://chomsky.info/20050716/

Traduzione di Davide Gionco

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