LA FILOSOFIA NON DEVE ARRENDERSI AL DOMINIO TECNOCRATICO

La sovranità politica deve tornare alle comunità dei Diritti Umani

 

Anche se aprivo il primo libro con una citazione del grande filosofo Emanuele Severino tratta da un vecchio articolo, non credo di potermi ritrovare nel suo “IL DOMINIO DELLA TECNICA TRA EUROPA E POLITICA”, pubblicato sul Giornale di Brescia il 25 gennaio scorso.

Certamente non mi ci ritrovo da un punto di vista squisitamente politico – intendendo con politica l’amore per la polis, non l’appartenenza ad un partito – ma, dato che non sono un profondo conoscitore del suo pensiero, lascio la porta aperta per una diversa valutazione di alcune affermazioni che mi danno molto da pensare.

Andiamo con ordine.

Nell’articolo Severino, che aderisce al manifesto di Carlo Calenda, fa riferimento all’ultimo libro dello stesso che avrebbe incluso nello sfondo delle sue riflessioni “… la ricerca che da quasi sessant’anni vado conducendo sulla tecnica e sui rapporti con l’economia (capitalistica e pianificata), la politica e le altre forze che intendono oggi porsi alla guida del mondo. In tale ricerca si mostra che, da mezzo di cui quelle forze si servono, la tecnica è destinata a destinare il loro scopo e quindi a prevalere su di esse. Ma ad esser così destinata non è quella che oggi chiamiamo con questo nome, ma è la tecnica che e in quanto riesce a rendersi conto che la propria volontà di accrescere all’infinito la propria potenza non può avere davanti a sé alcun limite inviolabile. Ed essa può attingere questa consapevolezza soltanto dal sapere filosofico, e propriamente da ciò che chiamo il «sottosuolo filosofico del nostro tempo»”.

È certo che la filosofia dei nostri tempi vede il genuflettersi di politica ed economia, per non parlare di media e cultura alla tecnica, direi anche, più precisamente, al “tecnicismo”: sembra in effetti che, soprattutto in ambito “accademico” o di “pensiero unico dominante”, quasi non si possa discutere o provare a limitare quanto permesso dalla tecnica: chi prova ad alzare un sopracciglio è inesorabilmente condannato al marchio dell’infamia anti-scientifica.

Credo però non si debba mai dimenticare il fatto che stiamo parlando di un fenomeno, una “forza”, la tecnica, certamente più penetrante e determinante di altre e sulle altre, ma che è fenomeno pur sempre dovuto all’arbitrio dell’uomo.

La tecnica non è un ente astratto ma attività fatta da uomini in carne ed ossa che compiono scelte ben precise.

A cosa “serve” leggere la storia soltanto come un succedersi di avvenimenti e forze ineluttabili, o la filosofia del nostro tempo come consapevolezza propria di una tecnica che “riesce a rendersi conto che la propria volontà di accrescere all’infinito la propria potenza non può avere davanti a sé alcun limite inviolabile”?

Non arriverei mai a dire che siano errori di analisi, ci mancherebbe, mi sembra però di vedere un’assenza del fattore umano, non vedo perché l’uomo non possa gestire consapevolmente fenomeni e forze, e determinare una migliore filosofia operativa, anche per quanto riguarda la tecnica stessa.

Severino infatti, facendo riferimento anche ad un precedente articolo in cui elogiava il libro e l’opera di Calenda, affermava di escludere il fatto che “… la politica e lo Stato possano tornare alla guida della tecnica e dell’economia: «La «destinazione» di cui parlo è sì una «tendenza», ma nel senso che per la cultura oggi dominante non esiste alcuna verità necessaria e incontestabile e quindi non può esistere nemmeno una connessione necessaria tra il presente e il futuro – sì che è una «tendenza» che domani sorga il sole o che un corpo lasciato a sé stesso cada verso il basso» ma non è una tendenza la cui inversione, ossia l’accadere della relativa controtendenza, viene ritenuta del tutto improbabile. (Andando oltre la logica della probabilità nei miei scritti si mostra in che senso la destinazione della tecnica al dominio è una necessità – fermo restando che anche l’età della tecnica abbia poi a tramontare)”.

Insomma, la cultura dominante del nostro tempo non ha, purtroppo dico io, “bisogno” di verità necessarie; e siamo così, dico ancora, alla crisi di valori.

Dal positivismo in poi abbiamo giustamente rinunciato ai dogmi delle religioni fattesi potere, per entrare però in un’era in cui le verità indiscutibili sono state sostituite con altri dogmi di postulati relativi, con un’agnosticismo sulla possibilità di conoscere le cause e le origini della realtà, con la “necessaria” tendenza “logica” a ritenere tutto possibile, anche un creato auto-creato.

E non sto dicendo che abbiamo bisogno di un nuovo dogma su Dio, lascerei certamente la cosa alla filosofia religiosa, suo ambito naturale.

Dico solo che se il fine della filosofia non è più l’amore per il sapere ma si trasforma, come a me pare, in una resa alla cultura dominante che non prevede “alcuna verità necessaria e incontestabile”, abbiamo un serio problema culturale che diventa anche etico.

Infatti si esclude a priori, a quanto pare, che politica e Stato possano guidare e controllare tecnica ed economia.

La tecnica è sì penetrante e pervasiva sul vivere individuale, collettivo e “istituzionale”, ma non credo si debba compiere l’errore di elevarla a nuovo ente “incontestabile”, cadrebbe tutta la speranza di ricomporre la frattura della moderna separazione dei saperi, per non parlare della speranza in un mondo migliore, più giusto ed equilibrato.

Se la filosofia del nostro tempo è orfana degli ideali perché abbacinata dai miraggi della tecnica, credo sia proprio dei filosofi la responsabilità primaria di mettere in guardia, di denunciare le forze in atto che si coagulano inevitabilmente su alcuni precisi interessi, oppure denunciare interessi che sfruttano scaltramente le forze in atto per proteggere se stessi ed estendere il loro dominio.

Non sto quindi contestando che la tecnica sia la forza principale della nostra epoca o che sia anche “destinata” a permeare il sapere ed il fare dell’uomo, ma un conto è permeare sin dove “permesso” dalla naturale “disposizione” delle altre sapienze, altra cosa è pretendere di annichilire gli altri saperi, in primis quello filosofico senza cui la tecnica stessa non avrebbe avuto modo di emergere.

È per me quindi incomprensibile, dato che a parlare è un filosofo, leggere che “la «grande politica» è l’atteggiamento che vede l’inevitabile deriva di ogni prassi politica e lascia che lo scopo delle società umane non sia il profitto privato, l’abolizione delle classi sociali, la nazione, il regno dei cieli, la dignità dell’uomo, ecc. ma sia quell’incremento indefinito della potenza che può dare all’uomo tutto ciò che sinora gli è mancato. Delle forze politiche attualmente in campo saranno vincenti quelle che sapranno incarnare il senso della «grande politica». Siano esse di «destra» o di «sinistra», o di altro ancora”.

Il punto di vista sembra non tener conto dei problemi derivanti dalla supremazia della tecnica e del tecnicismo sulle altre culture, sulla mancanza di un’integrazione dei saperi e dei valori che permetterebbe di porre dei necessari limiti, ove eticamente ritenuto opportuno per il bene comune, a tutto ciò che la tecnica potrebbe compiere.

Credo sia pericolosa una filosofia che guardi solo all’“incremento indefinito della potenza che può dare all’uomo tutto ciò che sinora gli è mancato”.

Pericoloso pensare, addirittura, che le mancanze dell’uomo possano individuarsi nella sua incapacità “tecnica” di avere tutto ciò che gli sarebbe “mancato”, che le sue “mancanze” siano più importanti, di fatto, della sua dignità.

Credo che le età culturalmente, economicamente e commercialmente prospere della storia siano la dimostrazione che l’uomo è capace di integrare saperi e culture, che il rifiorire, il rinascere sociale e culturale si possa compiere senza annichilire tutto il resto sotto il giogo di una potenza “più potente” delle altre.

Anche se Severino afferma nell’articolo che il manifesto di Calenda “… non ha nulla a che vedere con la cosiddetta «tecnocrazia» alla Saint Simon”, non mi sembra che il suo pensiero ponga delle barriere filosofiche e politiche alla definitiva affermazione della più inquietante tecnocrazia.

Altra grande perplessità su quanto afferma il filosofo l’ho nel suo ritenere “inevitabile che, se ci si prefigge di risolvere i problemi «particolari» e «concreti» – se si ha come scopo l’incremento della potenza – si finisca col riconoscere che tale incremento non può essere dato dal «sovranismo» che separa dall’unione tecnico-economico europea e riduce la potenza, ma dalla collaborazione tra i diversi centri europei della potenza”.

Qui Severino mostra, pur per i suoi scopi logici e analitici, di appiattirsi sulla concezione del “sovranismo” che più fa comodo al sistema, quella che lo vuole sinonimo di nazionalismo.

Sembra del tutto ignaro, o disinteressato, al fatto che la Costituzione parli di sovranità del popolo al suo primo punto, e che al secondo affermi di voler difendere i diritti inviolabili dell’uomo, quei diritti umani che proprio la potenza della tecnica rischia oggi di annichilire.

Oltre a ciò, nella sua speculazione sembra del tutto assente il fatto che la potenza della tecnica non sia a disposizione dell’umanità, ma controllata da centri di potere privati, da logge e corporazioni che superano ormai la politica e le determinazioni democratiche e consapevoli dei popoli.

Il nostro futuro è infatti sempre più determinato dalla tecnica e dalle forze che la controllano e la indirizzano, in ogni ambito.

Oltre a ciò, evidentemente non contento, Severino va anche oltre l’Europa così: “È d’altra parte inevitabile che infine si riconosca ovunque che l’incremento indefinito della potenza richiede che lo «scopo» delle società europee non sia la potenza dell’Europa, ma unicamente il puro incremento della potenza. Avere infatti come scopo, oltre alla potenza, anche il suo carattere «europeo», non è forse essere meno potenti dell’aver come unico scopo la potenza? L’aver quest’unico scopo non determina forse che chi se lo prefigge sia destinato al dominio e a lasciarsi indietro anche l’Europa?”.

Spiace molto che da un autorevole esponente del più alto pensiero dell’uomo, la filosofia, da cui tutti gli altri ambiti del pensiero traggono forza e motivo, scienza e tecnica comprese, venga un appello destinato a giustificare l’opera di soggiogamento dell’umanità permesso da una tecnica privatizzata e incontrollata.

Una ragione in più per confermare quanto affermavo in questo articolo in tema di sovranismo e diritti umani: “Ecco allora che dovremmo capire quanto risulti necessario il richiamo ai 30 diritti dell’uomo, a patto che siano compresi e assunti nel loro complesso ad etica, prima personale poi, necessariamente, politica: sono gli unici valori in grado di controllare la tecnica e ricomporre la frattura culturale, diventata ormai cornice del dominio privatistico sulle nostre vite e sullo Stato di diritto. Ognuno dovrebbe essere “sovrano” come persona, nessuna autorità, prassi o automatismo dovrebbe violare la nostra dimensione, l’universo di pensiero e le sensibilità che più ci appartengono. È proprio il concetto di “sovranità”, a ben vedere, l’espressione etica dei diritti umani: ogni persona è inviolabile, quindi “sovrana” in quanto tale perché componente fondante e fondamentale della comunità. La sovranità politica della comunità, secondo i diritti umani, trova legittimazione e forza nel rispetto delle sovranità individuali, che solo se libere possono razionalmente comporre la comunità in uno Stato di diritto. Ecco così il “sovranismo” nella sua massima espressione, filosofica, giuridica e democraticamente più consona a rappresentare il progresso auspicabile della politica, altrimenti troppo debole di fronte all’enorme macchina degli ingranaggi tecnocratici privati”.

L’ultima cosa che vorrei dire riguarda in particolare la parte finale dell’ultima citazione del Severino qui riportata, esattamente questa: “Avere infatti come scopo, oltre alla potenza, anche il suo carattere «europeo», non è forse essere meno potenti dell’aver come unico scopo la potenza? L’aver quest’unico scopo non determina forse che chi se lo prefigge sia destinato al dominio e a lasciarsi indietro anche l’Europa?”.

Certo che chi si prefigge la potenza della tecnica tout court sia destinato a dominare il mondo, ma l’appello del Severino dove conduce?

Alla guerra tecnologica con le altre forze, Cina in primis, che della tecnica fanno grande sfoggio e investimenti come raccontavo in questo inquietante articolo?

Oppure ad una “più logica” resa di fronte alla potenza tecnologica e di investimenti della Cina, data da una moneta sovrana e da un’etica assai lontana dai diritti dell’uomo?

Dovremmo consegnar loro le poche, residue, chiavi del nostro Paese per realizzare la definitiva vittoria della potenza della tecnica?

Come ripeto, non posso dire di conoscere a fondo il pensiero del Severino ma l’articolo in questione, pubblicato su un giornale generalista, non su una rivista di filosofia, mi sembra lasci poche interpretazioni.

Preferivo certamente il Severino del 2001 con cui aprivo il mio libro, tratto da un articolo che si intitolava “Ma la scienza non può spiegare che cos’è l’uomo”.

Esattamente questo: “Sì, è nella tendenza del nostro tempo che anche l’anima religiosa si inchini alla scienza. Ma se questa tendenza è inevitabile, se le nobili forme del passato sono in qualche modo destinate a perdere il decoro, si tratta pur sempre di una penosa genuflessione”.

 

Massimo Franceschini, 15 febbraio 2019

fonte immagine: Pixnio

Nel mio libro un programma politico ispirato ai Diritti Umani

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