La falsa decolonizzazione africana

di Ilaria Bifarini

Con la disgregazione degli imperi coloniali e il riconoscimento dell’indipendenza, si viene a consolidare una forma inedita di egemonia imperialista, svincolata dal rapporto di subordinazione tra Stati e incentrata su quello di dominazione economica da parte di poteri e élite transnazionali. E’ la “falsa decolonizzazione”.

K. Nkrumha, il primo presidente del Ghana, osservando la situazione interna dei regimi africani, ha denunciato come essi facciano derivare la propria autorità di governo “non dalla volontà popolare ma dal sostegno dei loro padroni neocoloniali”, poiché, nella quasi totalità dei casi, il sistema economico e la vita politica di questi Stati sono completamente eterodiretti dalle potenze straniere. Egli rileva come, al fine di perpetrare il controllo economico sui paesi che hanno ottenuto l’indipendenza, le potenze occidentali abbiano stipulato già durante la fase di decolonizzazione alcuni accordi commerciali, in particolare la creazione di mercati comuni, di unioni doganali e monetarie tra i paesi ex coloniali, e altre forme di associazione con le potenze occidentali.

K. Nkrumha, primo presidente del Ghana

 

Per rafforzare il controllo egemonico sugli ex possedimenti, i nuovi coloni hanno provveduto alla costituzione di basi militari e alla fornitura di armamenti, in modo da instaurare e garantire regimi consenzienti, non disdegnando lo strumento del colpo di Stato e dell’assassinio politico.

La transizione all’indipendenza coincide dunque con il trasferimento del potere politico a un regime sostenuto dalle classi sociali legate agli interessi stranieri, rappresentati in passato dallo stato coloniale.

In questo scenario il neocolonialismo non va inteso come esito del processo di decolonizzazione e del declino dell’imperialismo occidentale, ma piuttosto come un mezzo di perpetrazione, che sostituisce a una forma arcaica di dominazione gli strumenti economico-sociali del libero mercato, indirizzando le politiche dei governi locali verso gli interessi del capitale finanziario e delle multinazionali dei paesi ricchi.

Per dirla col combattente patriota per la liberazione della Guinea portoghese, A. Cabral, l’indipendenza nazionale – nella maggior parte dei casi più concessa che conquistata – non è altro che un raffinato escamotage delle potenze imperialiste per rendere il colonialismo accettabile e compatibile, a seguito dei radicali mutamenti del quadro politico-istituzionale globale alla fine dei due conflitti mondiali.

Una delle cause maggiori di vulnerabilità consiste nella mancanza in questi Stati di un’effettiva dimensione nazionale e di una coesione sociale e culturale delle masse popolari. I movimenti di liberazione nazionali hanno rimarcato la necessità di sostenere e promuovere la cultura locale come strumento della lotta rivoluzionaria antimperialista, denunciando la passiva accettazione di modelli di vita occidentali come forma di neocolonialismo culturale. In questo filone si collocano i tentativi di valorizzare le caratteristiche etniche e i valori etico-politici delle culture preesistenti al colonialismo da parte del movimento politico-letterario della “négritude”, cui aderiscono numerosi scrittori e politici africani e afroamericani, tra cui il primo presidente del Senegal indipendente, L. S. Senghor. Come ben sintetizzato dal filosofo francese Sartre, la negritudine, quale corrente di rivendicazione della specificità e dell’orgoglio africano, non è altro che “la negazione della negazione dell’uomo nero”.

(paragrafo tratto da “I coloni dell’austerity, Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”)

 

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