La crisi e gli interventi dello Stato nell’economia

di Gaetano Bucci

1.

La Costituzione ha assegnato alla Repubblica democratica fondata sul lavoro il compito di realizzare un programma di emancipazione sociale volto a realizzare l’eguaglianza in senso formale e sostanziale (art. 3, co. 2, Cost.) e, per tale ragione, ha fornito allo Stato, agli enti autonomi e ai cittadini-lavoratori, una serie di poteri idonei a incidere sui «due grandi blocchi di potere discendente e gerarchico […], che sono la grande impresa e l’amministrazione pubblica» (N. Bobbio). Al legislatore è stato attribuito il potere di porre limiti alla «proprietà privata allo scopo di assicurarne la funzione sociale» (art. 42, co. 2, Cost.) e quello di realizzare “statizzazioni”, “pubblicizzazioni” e “socializzazioni” di «imprese» aventi «carattere di preminente interesse generale» (art. 43 Cost.). Ai lavoratori sono stati conferiti, nel contempo, poteri idonei a immettere nel circuito istituzionale indirizzi diretti a garantire il primato delle utilità sociali sugli interessi privati (artt. 39, 49, 40, 75 Cost.), ponendoli così nella condizione di «concorrere» alla determinazione della «politica nazionale» (artt. 3, co. 2; 39; 49; 40; 75 Cost). La Costituzione prevede che l’esercizio di questi poteri pubblici e sociali deve svolgersi nell’ambito di una programmazione “globale” volta a indirizzare «l’attività economica pubblica e privata […] a fini sociali» (art. 41, co. 3, Cost.), la quale viene considerata come lo strumento essenziale per risolvere i problemi della collettività. I Costituenti vollero contrapporre infatti alla «programmazione dall’alto governata dagli organi dirigenti del MEC (Mercato Comune Europeo) nell’interesse dei grandi monopoli […], un piano generale di sviluppo economico» elaborato con «metodo democratico» e diretto «a coordinare le rivendicazioni immediate della classe lavoratrice con le riforme della struttura economica» (P. Togliatti), ovvero un programma di direzione sociale dei meccanismi produttivi elaborato dal Parlamento con il concorso delle assemblee elettive locali considerate come organi ricettivi delle istanze espresse nel “territorio”, ritenuto il cardine della democrazia di massa.

Il Piano Giolitti, adottato nella fase del primo centrosinistra, pose le premesse per un crescente intervento pubblico nell’economia, il quale – mediante l’istituzione del sistema delle partecipazioni statali – seppe convertire gli enti pubblici economici utilizzati dall’ordinamento corporativo per sostenere i profitti degli oligopoli privati, in dispositivi idonei a indirizzare gli investimenti delle imprese pubbliche e private verso la realizzazione dei «fini sociali» prescritti dalla Costituzione. Nella fase successiva degli anni Settanta, le lotte dei lavoratori riuscirono a imporre in alcuni ambiti (industriale; sanitario), una “programmazione democratica dell’economia” impostata sul collegamento tra consigli di zona, consigli di fabbrica, assemblee elettive locali e Parlamento, la quale riuscì a conseguire non solo obiettivi di welfare state, ma anche di controllo sociale sugli investimenti produttivi. In tale stagione furono conseguite importanti conquiste, quali le riforme della Rai, della scuola e del diritto di famiglia; l’istituzione del Servizio sanitario universale; l’attuazione dell’ordinamento regionale e l’adozione dello Statuto dei lavoratori.

2.

Il processo di attuazione della Costituzione fu interrotto nella seconda metà degli anni Settanta per una serie di cause interne (“strategia della tensione”) ed esterne, quale l’edificazione di un sistema di “vincoli” sovranazionali mediante il quale le classi dominanti sono riuscite a ripristinare, in un ambito più vasto, una forma di Stato autoritaria e liberista volta a garantire la stabilità dei mercati e quindi la continuità dei profitti. In tale contesto si è assistito – anche a causa del rovesciamento strategico posto in essere dai gruppi dirigenti dei partiti di sinistra – a un passaggio da una programmazione vincolante a una “indicativa”, poi a una “settoriale” e “per obiettivi” e infine a una “finanziaria” diretta a subordinare la garanzia dei diritti sociali ai vincoli di una politica di bilancio preordinata al sostegno delle imprese private. Nel 1978 fu adottata infatti – nel contesto del processo di europeizzazione neoliberista – la legge finanziaria, la quale pose fine alla programmazione a «fini sociali» imperniata sul ruolo del Parlamento per dare avvio a quella, appunto, finanziaria incentrata sul ruolo del Governo e sul primato dell’economia privata.

Il processo di subordinazione dell’ordinamento costituzionale dell’economia agli obiettivi stabiliti dai trattati europei, proseguì con la decisione adottata, nel 1981, dal Ministro del Tesoro e dal Governatore della Banca d’Italia, di liberare quest’ultima dall’impegno di finanziare i disavanzi pubblici mediante l’emissione di moneta (cd. divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro). In nome del rispetto dei vincoli antinflazionistici stabiliti dallo SME (Sistema Monetario Europeo), la Banca d’Italia fu resa quindi impermeabile ai princìpi della rappresentanza democratica e, di conseguenza, il Parlamento e il Governo furono costretti a ridurre la spesa sociale. Tali indirizzi furono ribaditi, nel 1992, dal Trattato di Maastricht, il quale stabilì il divieto per la BCE – in cui la Banca d’Italia fu inglobata unitamente alle Banche di Stato degli altri Paesi europei – di fornire supporto ai debiti sovrani (art. 123 TFUE).

Nel corso degli anni Novanta – sempre in esecuzione degli indirizzi neoliberisti delle istituzioni tecnocratiche internazionali (FMI; BM) e sovranazionali (BCE) – i Governi italiani liquidarono i pacchetti azionari dell’ENI, dell’IRI, dell’INA, della Telecom, dell’ENEL, delle Ferrovie dello Stato e degli enti creditizi pubblici, cedendo così ai privati le imprese «di preminente interesse generale».

La legge costituzionale n. 3/2001 inferse un altro vulnus al modello di governo dell’economia delineato dalla Costituzione, perché oltre a recepire le nozioni cardine dell’UEM (Unione economica e monetaria europea) – ovvero «il mercato» e la «concorrenza» (art. 117, co. 2, lett. e) – introdusse il principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118, co. 4, Cost.) già incorporato nella Carta del lavoro fascista, la quale, nel par. IX, stabilì che «l’intervento dello Stato nella produzione economica» deve svolgersi «soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata». Col consenso passivo della maggioranza parlamentare fu adottata inoltre la legge costituzionale n. 1/2012 che ha inserito, nell’art. 81 Cost., il principio del “pareggio di bilancio” – già prescritto dal Fiscal compact – mediante il quale i diritti sociali sono stati sottoposti a una radicale compressione.

Tali decisioni hanno mirato, quindi, a sostituire la programmazione partecipata e orientata a fini sociali con una programmazione verticistica volta a rimuovere gli ostacoli al dispiegamento del mercato concorrenziale, il quale è stato costruito mediante il dispositivo della “governamentalità” neoliberale dell’UEM, che impedisce la soluzione della crisi da sovrapproduzione emersa alla fine degli anni Sessanta e manifestatasi virulentemente nel 2008 in ambito finanziario, perché continua a essere affrontata tramite politiche di “austerità” e politiche di erogazione di denaro pubblico alle banche e alle imprese, le quali, provocando l’impoverimento dei lavoratori e la trasformazione del debito privato in pubblico, realizzano una “privatizzazione dei profitti” e una “socializzazione delle perdite” fonte di una recessione senza fine, governata mediante lo “stato d’eccezione permanente”.

3.

La crisi economica in corso, acuita dagli effetti recessivi derivanti dalla crisi pandemica collegata anch’essa all’organizzazione capitalistica della produzione – come dimostrano gli effetti delle devastazioni ecologiche provocate dai processi produttivi invasivi delle multinazionali agro-industriali –, si pone quindi in continuità con le crisi precedenti perché costituisce l’espressione delle perenni contraddizioni strutturali del modo di produzione capitalistico oggi esteso a livello globale e potrebbe anzi funzionare come un fattore di potenziamento dei loro effetti regressivi sul piano economico-sociale (recessione, disoccupazione) e su quello democratico, come rivelano le attuali tendenze all’instaurazione di un regime del “capo del governo”, le quali si esprimono nell’eccessiva presenza mediatica dell’organo monocratico di governo, nell’uso improprio dei decreti-legge, in quello abnorme dei DPCM e nelle proposte di revisione costituzionale miranti a raccordare la centralizzazione della politica con la centralizzazione della produzione.

L’ordine neoliberale non esclude, del resto, la possibilità del ricorso a soluzioni autoritarie quando ciò sia richiesto dalla necessità della sua perpetuazione e l’emergenza prioritaria per le classi dominanti è oggi quella di neutralizzare il conflitto sociale già manifestatosi con gli scioperi nelle fabbriche a difesa della salute e con le mobilitazioni sia contro i piani di “liberalismo compassionevole” adottati dall’UE, i quali si traducono in “prestiti” sottoposti a “condizionalità” sia pur “alleggerita”, sia contro le misure assistenziali adottate con il decreto rilancio, le quali paiono finalizzate soltanto a tamponare le ferite inferte al corpo sociale dalla crisi ecologica connessa alla “crisi organica” del capitalismo contemporaneo. Una situazione quindi che potrebbe preludere all’avvento di scenari vieppiù apocalittici, a fronte dei quali appare incongruo invocare un intervento pubblico vagamente keynesiano e dunque subalterno agli interessi ristrutturativi del capitalismo, mentre risulta necessario rivendicare un ruolo strategico dello Stato nell’economia, da svolgere mediante una programmazione orientata socialmente e quindi volta non solo a potenziare i servizi pubblici essenziali (sanità; trasporti; istruzione; cultura; ricerca), ma anche a riappropriarsi degli strumenti monetari e di bilancio necessari per determinare, con il concorso delle forze politiche e sociali e degli enti autonomi, gli indirizzi della produzione, ovvero “come, cosa, quanto e per chi produrre”, specie in riferimento alla questione della tutela ambientale.

I gruppi dirigenti del capitalismo in crisi hanno abbandonato, del resto, il dogma della sovranità del mercato e richiedono ormai un intervento pubblico nell’economia sia pur finalizzato alla garanzia della continuità dei profitti, anche se non hanno dismesso lo spirito predatorio, che li ha spinti a costringere i lavoratori a operare, senza idonee precauzioni, negli ospedali e nelle filiere della produzione e della logistica, facendogli così pagare un tributo considerevole in termini di salute e di vita.

I lavoratori dovrebbero essere pertanto consapevoli che gli strumenti idonei per frenare l’invadenza pervasiva dei poteri economici e per riaprire il corso della storia oltre l’eterno presente imposto dal neoliberismo, non sono quelli ordoliberali previsti dai trattati europei e dai patti di stabilità, ma quelli pubblico-sociali previsti dalle norme costituzionali in materia di Rapporti economici, perché consentono di impostare un processo di democratizzazione e socializzazione dell’organizzazione del potere pubblico e privato e di porre le premesse per la costruzione di una nuova Europa democratica e sociale. Un percorso che presuppone la riconquista, da parte dei lavoratori e delle loro organizzazioni, di una capacità di riflessione e di crescita sul piano culturale e, al tempo stesso, di una capacità di lotta necessaria per arrestare la dilagante barbarie e per garantire la realizzazione dei diritti inviolabili dell’uomo e della natura.


Tratto da:
https://volerelaluna.it/economie/2020/06/16/la-crisi-e-gli-interventi-dello-stato-nelleconomia/

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