Lelio Basso: I partiti sono uno strumento dell’ordinamento democratico moderno

di Lelio Basso

I partiti sono […] lo strumento che lo sviluppo storico ha creato per rendere possibile la sovranità popolare, per trasformare in volontà statale, in volontà giuridicamente rilevante, la volontà che si manifesta nella società civile, per trasfondere nello Stato-apparato la volontà dello Stato-comunità: per dirla con parole del Mortati, sono “mezzo necessario di azione della società che si fa Stato”.1

È chiaro che il concetto, che sta alla base di queste enunciazioni, e delle altre che si potrebbero aggiungere, è che in un regime democratico la sede della formazione della volontà statale non è più il Parlamento ma è direttamente il popolo, alle cui scelte il Parlamento deve conformarsi.2 Certo il Parlamento rimane l’organo chiamato a dire forma legale alla volontà del popolo attraverso la procedura legislativa e, più in generale, attraverso tutte le decisioni anche politiche che sono devolute alla sua competenza, ma nella sostanza il regime democratico esige che il Parlamento si uniformi alla volontà reale del popolo quale viene quotidianamente elaborata attraverso quello strumento essenziale che sono i partiti politici.3 E che questa trasformazione rappresenti un reale progresso democratico lo si evince facilmente dal fatto che, senza i partiti, sarebbe pressoché impossibile alle volontà singole e disorganizzate dei cittadini far sentire il proprio peso sulla direzione della cosa pubblica4, sicché i cosiddetti “rappresentanti del popolo” sottratti per quattro o cinque anni ad ogni forma di controllo, e dichiarati liberi da ogni vincolo di mandato, finirebbero con il costituire un potere oligarchico sovrapposto alla reale volontà popolare, mentre è attraverso i partiti che si organizza l’effettiva rappresentanza popolare.5 “Dal punto di vista teorico costituzionale, la differenza fondamentale fra il moderno Stato democratico di partiti e la tradizionale democrazia parlamentare liberal-rappresentativa sta in questo, che il moderno Stato di partiti per la sua essenza e per la sua forma non è altro che una forma razionalizzata di democrazia plebiscitaria, o – se si vuole – un surrogato della democrazia diretta nello Stato moderno”.6

Un surrogato di democrazia diretta, cioè quella che il Burdeau chiama una “democrazia governante”, o, in altre parole, il popolo esercitante il potere effettivo nelle forme in cui è possibile esercitarlo in un grande Stato moderno, tanto diverso dalla vecchia polis greca o dai tradizionali cantoni svizzeri. In questa nuova forma di democrazia non vige più, abbiamo detto, il concetto di “volontà generale” intesa come volontà unitaria della collettività, ma si ridimensiona anche il principio maggioritario, che perde il suo valore di dogma assoluto di ogni reggimento democratico per ridursi ad essere considerato per quello che è in realtà e cioè la tecnica più semplice, ma ancora rudimentale, per esplicitare in una formula unitaria una volontà collettiva, quella del popolo-sovrano, che unitaria non è.7 In realtà, come notava il Kelsen già parecchi anni fa, una vera democrazia dovrebbe tendere in permanenza non semplicemente a legalizzare la volontà della maggioranza ma a realizzare un compromesso fra maggioranza e minoranza8, dato che anche la minoranza fa parte del popolo, cioè partecipa anche essa dell’attributo della sovranità: anzi piuttosto che ad un compromesso fra due sole tesi, quella della maggioranza e quella della minoranza, noi diremmo oggi che deve tendere ad una sintesi fra le molteplici opinioni che si esprimono attraverso i partiti, interpreti tutti, sia pure in misura diversa, della complessa ed eterogenea volontà popolare. Certo, sul piano formale, la Costituzione deve prevedere una procedura che consenta di esprimere una volontà unitaria e, tecnicamente, è impossibile allo stato attuale non ricorrere per questo al principio maggioritario: quello che qui si vuole sottolineare è tuttavia un aspetto non procedurale ma sostanziale del regime democratico.

E l’aspetto sostanziale è appunto questa supremazia del popolo, e quindi dei partiti, sul Parlamento. Giustamente è stato osservato da molti autori che anche la discussione parlamentare non ha più oggi la funzione di un tempo, quella cioè di momento terminale del processo decisionale, ma solo quella, più modesta, di fornire una cassa di risonanza al dibattito fra i partiti per influenzare l’opinione pubblica e contribuire per tale via a stimolare il processo di formazione della volontà sovrana del popolo. “In queste condizioni – scrive il Virga – solo apparentemente i postulati della discussione e della pubblicità sono rimasti in vita; la discussione pubblica all’assemblea è una mera forma (useless ceremony)essa non mira a convincere, ma ad annientare l’avversario; i Parlamenti non fanno che registrare di volta in volta sui singoli argomenti quale è la volontà dei vari gruppi parlamentari che votano compatti secondo le decisioni preventivamente assunte”.9

Quando si è detto supremazia del popolo, e quindi dei partiti, sul Parlamento, quando si è stabilito che la procedura maggioritaria è un espediente tecnico per risolvere formalmente il problema della reductio ad unum delle molteplici e contrastanti opinioni che in seno al popolo si agitano, ma che sul piano sostanziale non spoglia il popolo – tutto il popolo e quindi anche le minoranze – dei suoi attributi sovrani, si è posta una premessa gravida di conseguenze. Fra le quali è qui opportuno mettere in rilievo quella che attribuisce carattere sovrano anche alla funzione dell’opposizione, che è una funzione essenziale della democrazia.10 Essa infatti è in primo luogo un momento necessario nel processo di formazione della volontà popolare, che può formarsi solo attraverso un libero dibattito permanente; un confronto continuo di idee, un dialogo ininterrotto fra tutte le forze vive del paese, ed in secondo luogo è un momento necessario della stessa direzione politica del paese in quanto è chiamata ad assolvere al compito di controllo e di critica in assoluta indipendenza dal governo come difficilmente può essere fatto da altri, organismi. In questo senso è chiaro che non soltanto i partiti maggioritari, ma anche i partiti di opposizione sono portatori di sovranità, e perlomeno interpreti di volontà e funzioni sovrane, ed è per questo chiaro che il massimo di democrazia nella funzione di governo, cioè il massimo rispetto della volontà popolare, si realizza non attraverso un semplice voto di maggioranza, ma attraverso una decisione che tenga il massimo conto possibile anche delle istanze della opposizione e rappresenti, ove sia possibile, una sintesi delle volontà diverse che si sono manifestate in seno al sovrano collettivo. […]

Essendo stato a suo tempo il presentatore della proposta dell’articolo che poi, con qualche modifica, divenne l’art. 49, posso asserire che quella proposta, come del resto la discussione che ne segui e l’approvazione che in definitiva le fu data, nascevano tutte dalla piena consapevolezza della necessità di una nuova strumentazione della vita pubblica, nascevano dalla coscienza della transizione, già da tempo in atto in Europa, dallo Stato parlamentare allo Stato di partiti. Per quanto riguarda l’intenzione del proponente, essa risulta chiara dal fatto che la proposta si articolava in due articoli, nel secondo dei quali si prevedeva espressamente che ai partiti politici dovessero essere riconosciute “attribuzioni di carattere costituzionale”.11 E tale fu anche l’opinione della prima sottocommissione che espressamente affermò, approvando un ordine del giorno proposto dall’on. Dossetti, il principio dell’attribuzione ai partiti di compiti costituzionali, e appunto perché questa attribuzione incideva sull’ordinamento dello Stato, che non era di competenza della Prima ma della seconda sottocommissione, si spossessò della decisione rimandandola ad un esame comune con la seconda sottocommissione. Non sono in grado di stabilire oggi perché questa riunione non ebbe luogo, se ciò accadde per deliberata volontà di qualche organo o per altro motivo: fu così comunque che venne evitata una pronuncia sul secondo articolo, senza che peraltro il primo, successivamente approvato anche in assemblea, perdesse il suo significato.

Era chiaro infatti fin da allora che la sovranità popolare, affermata nel testo della Costituzione, sarebbe stata nulla più che un’espressione verbale se non fosse stata creata una strumentazione adeguata come dice giustamente Lavagna, “la più corretta interpretazione dell’art. 1, ancorché preso da solo, dimostra che il concetto di democrazia da esso accolto si impernia, fra l’altro, sulla continuità democratica; vale a dire sulla circostanza che le istituzioni di governo siano in permanenza espressione, diretta e indiretta, della sovranità e della volontà popolare. La Costituzione, in altri termini, ha inteso escludere ogni forma di democrazia apparente, con eventuali cristallizzazioni del potere in gruppi ed in élitesancorché selezionati attraverso procedure democratiche; ed esige una continua, effettiva rispondenza dei risultati di simili procedure alla reale volontà del popolo ed una effettiva possibilità per tutte le forze politiche e sociali, in quanto legittime, di alternarsi al potere”.12 Ora l’esperienza aveva insegnato che il Parlamento, ancorché “selezionato attraverso procedure democratiche” finisce con il diventare una élite cristallizzata che si sovrappone al popolo che lo ha eletto, se non viene mantenuto quel rapporto e quel controllo permanenti fra eletti ed elettori che è stato una delle ragioni d’essere dei partiti alla loro origine e che rimane tuttora un compito a cui soltanto i partiti possono assolvere. L’art. 49 è nato quindi in diretto collegamento con l’art. 1, e il compito che esso riserva ai partiti, quello di concorrere a determinare la politica nazionale, è il compito che spetta per eccellenza al potere sovrano, e quindi al popolo nell’esercizio della sua sovranità.

È errato quindi affermare che il nostro ordinamento costituzionale è quello di uno Stato di tipo parlamentare nel senso tradizionale della parola, perché anche l’art. 49 è elemento costitutivo dell’ordinamento a cui dà un senso e un indirizzo diversi da quello che si pretende dai critici dello Stato di partiti.13 E non si tratta semplicemente di giustapposizione di elementi diversi. No, l’art. 49 ha voluto rappresentare un elemento di cosciente superamento del sistema parlamentare classico in quanto fra i due sistemi c’è opposizione e giustamente lo ha rilevato con la sua consueta acutezza V. E. Orlando, scrivendo che la Costituzione italiana “oscilla tra due forme di governo radicalmente fra loro opposte, quale sarebbe una repubblica parlamentare […] ovvero una repubblica caratterizzata (qualifica che sembra destinata a prevalere) da una partitocrazia, tipo di governo affatto nuovo e moderno”.14 E tale opposizione era nota ai costituenti, che vollero introdurre la norma costituzionale appunto per aprire la strada allo sviluppo di quello Stato di partiti, già noto alla dottrina germanica e all’esperienza di vari paesi europei15, che oggi in Italia si usa chiamare “partitocrazia” con termine intenzionalmente spregiativo, o comunque tale da indicare un malcostume o una degenerazione degli istituti parlamentari. Non possiamo quindi che condividere, su questo punto la affermazione dell’Esposito: “la nostra Costituzione, riconoscendo il diritto dei singoli di associarsi in partiti per concorrere a determinare la politica nazionale, ha in modo implicito, ma chiaro, riconosciuto la conformità a Costituzione degli interventi dei partiti per determinare la politica nazionale. In corrispondenza quello che spesso è stato considerato malcostume e degenerazione degli istituti costituzionali, deve oggi considerarsi conforme alla legalità costituzionale”.16

Se pure in modo non così aperto ed esplicito, come era nelle intenzioni del proponente e come sarebbe risultato dal secondo degli articoli da me proposti, deve tuttavia riconoscersi che l’art. 49 ha dato un fondamento costituzionale al passaggio dal sistema parlamentare classico al sistema di democrazia di partiti, passaggio che, come quello che lo ha preceduto dal regime costituzionale tradizionale al regime parlamentare, avviene in generale non per brusche rotture ma attraverso. una gradualità di momenti che crea necessariamente situazioni ibride e apparentemente contraddittorie. Sottolineiamo “apparentemente”, perché la contraddittorietà esiste solo se si esaminano le situazioni costituzionali da un punto di vista dommatico, considerandole statiche e immutabili: per chi le veda invece nel loro divenire, nel loro processo di sviluppo, la contraddittorietà non esiste, perché lo sviluppo ha una logica, la logica della transizione da una a un’altra fase, e tende perciò a mettere in sempre più, chiara evidenza gli elementi della nuova fase in via di progressiva organizzazione.

Solo se si parte da questo concetto evolutivo e dinamico del significato dell’art. 49 si può intenderne la reale portata. Come ha notato l’Esposito, questo articolo “apre la via a sempre più intense forme di partecipazione dei partiti alla vita statale”.17

LELIO BASSO

Tratto da:
http://www.leliobasso.it/documento.aspx?id=6039dcd1d02ffc8b0eac421080fbc638

 

Note:

* * Da Lelio Basso, Il partito nell’ordinamento democratico moderno, in Isle, Indagine sul partito politico. La regolazione legislatjva, tomo I, Milano, Giuffré, 1966. Leader socialista fra i più autorevoli, studiosi e teorico del marxismo, giurista, Lelio Basso è stato uno dei più brillanti protagonisti dell’Assemblea costituente. L’art. 49 della Costituzione sulla funzione dei partiti politici, venne da lui proposto e sostenuto fino alla approvazione.

1 “Il partito, lungi dal porsi come diaframma che interponendosi fra società e Stato impedisce l’immediatezza della comunicazione, appare mezzo necessario di azione della società che si fa Stato non occultando in una fittizia e presunta volontà comune il reale contrasto di interessi, bensì organizzando tali interessi e mostrando la loro suscettibilità di porsi a base di sintesi politiche. La sovranità nazionale appare così non già una unità data, precostituita, indivisibile, bensì una unità in via di formazione attraverso un procedimento dialettico di contrasto fra parti contrapposte, legalizzato nel “metodo democratico”“ (Mortati, Note introduttive ad uno studio sui partiti politici nell’ordinamento italiano, in Studi in memoria di V. E. Orlando, Padova, 1957, v. 2, pp. 138-139).

2 Fu la dottrina costituzionalistica tedesca all’epoca della Repubblica di Weimar che, abbandonando le tesi tradizionali sull’autonomia dei deputati rispetto al corpo elettorale che lì aveva espressi, sostenne la necessità che in un regime democratico la volontà delle assemblee parlamentari corrispondesse permanentemente alla volontà politica del corpo elettorale quale si manifesta attraverso i partiti. Questa esigenza di una corrispondenza e consonanza permanente fra eletti ed elettori, l’obbligo cioè per gli eletti di mantenersi fedeli alla volontà politica dei propri elettori (la quale, per l’art. 49 della nostra Costituzione, si esprime attraverso i partiti), è implicita anche nella nostra Costituzione. Un concetto analogo esprime anche uno storico della Repubblica di Weimar: “Una democrazia può veramente funzionare soltanto se il ritmo della vita parlamentare corrisponde a quello delle altre forze sociali” (Rosenberg, Storia della Repubblica tedesca, Roma, 1945, p. 15).

3 “Certo le decisioni degli organi statali di formazione della volontà politica sono formalmente decisioni di questi organi […] in realtà esse sono decisioni dei partiti che dominano questi organi […] Conseguenza ne è che gli organi statali di formazione della volontà perdono il loro peculiare significato istituzionale” (Hesse, Die verfassungreichliche Stellung der politischen Parteien in modernen Staat, in Die Verfassungsrecht des Verwaltungsverfahrens, Berlin, 1959, p. 24).

4 “Nelle condizioni odierne senza l’azione e la mediazione dei partiti non è possibile ricollegare le correnti politiche che si formano spontaneamente con gli organi istituzionalizzati della formazione della volontà politica. Le nuove condizioni strutturali sociali e politiche hanno fatto sì che quegli impulsi provengano in minima misura ormai dalle persone singole, ma siano piuttosto espressione dei gruppi sociali organizzati, delle associazioni, dei partiti politici. Si è creato fra le strutture direttive dello Stato e il popolo uno “spazio libero precedente la formazione della volontà politica”, come si è espresso Ulrich Scheuer, in cui ancora non si formulano delle decisioni, ma dove queste vengono preparate e rese possibili mediante la pubblica discussione delle diverse correnti” (Leibholz, Der Strukturwandel der modernen Demokratie. Vortrag gehalten in der juristiscbenStudelngesellschaft, in Strukturproblem der modernen Demokratie, Karlsruhe, 1958, p. 23).

5 “In democrazia la volontà popolare non potrebbe costituirsi nella sfera politica e rimarrebbe vuota e inefficace se non esistessero delle autorità rappresentative, non importa come stabilite, mediante le quali la massa delle diverse volontà individuali possa essere ridotta ad unità per formare una concreta individualizzata volontà comune. […l Tutti sappiamo che oggi il Parlamento non è più in grado di assolvere alle sue funzioni rappresentative. E non le può assolvere perché la democrazia del XX secolo ha il carattere di democrazia di partiti” (ibidem, pp. 145-146).

6 Ibidem, pp. 93-94.

7 Scrittori politici autorevoli e di parte democratica come il Tocqueville e, da noi, il Nitti, hanno denunciato apertamente i pericoli di tirannia e di dispotismo impliciti nel principio maggioritario negandone l’assoluta validità. E che si tratti semplicemente di una tecnica, e di una tecnica assai imperfetta, lo conferma il fatto che con il sistema delle maggioranze a catena può essere profondamente alterato il risultato; il 51% della corrente maggioritaria di un partito può imporre la propria volontà a tutta la corrente e, attraverso di essa, a tutto il partito, dove in realtà quel 51% della corrente è minoritario; se questo poi accade nel partito di maggioranza, può verificarsi che una minoranza di esso riesca addirittura a trasformare la propria volontà in volontà statale. Un altro caso in cui una tecnica formalmente maggioritaria può riuscire ad un risultato opposto è quello di un corpo elettorale unico diviso in collegi, dove un partito, che sarebbe minoritario nell’insieme del corpo elettorale, può viceversa riuscire vittorioso attraverso la somma degli eletti dei singoli collegi. Così è accaduto negli Stati Uniti che siano stati eletti presidenti della Confederazione candidati rimasti in minoranza nell’elezione di primo grado ma che avevano ottenuto la maggioranza dei grandi elettori; così in Inghilterra è accaduto che il partito conservatore, minoritario nel corpo elettorale rispetto a quello laburista, abbia cionondimeno ottenuto la maggioranza dei seggi. In questi casi non è la maggioranza che governa, tuttavia la tecnica ha egualmente servito ad estrarre una volontà convenzionalmente legittima dal contrasto delle opinioni.

8 “L’intera procedura parlamentare, con la sua tecnica dialettico-contraddittoria, basata su discorsi e repliche, su argomenti e contrargomenti, tende a venire ad un compromesso. Questo è il vero significato del principio di maggioranza nella democrazia reale. Tale principio sarebbe comunque meglio chiamato principio maggioritario-minoritario “.(Kelsen, Democrazia e cultura,Milano, 1955, pp. 24 e 66). Oggi, con l’ulteriore sviluppo dei partiti, questo compromesso che, secondo Kelsen, deve sostituire il principio maggioritario, è da ricercarsi non più attraverso la discussione parlamentare ma in una discussione fra partiti. “Troppo spesso si disconosce che le decisioni autenticamente, democratiche non sono quelle fondate sulla volontà della sola maggioranza, ma sono un compromesso fra maggioranza e minoranza. Nelle organizzazioni molto vaste tale compromesso è più difficile da raggiungere; questo perciò non va ricercato a livello dello Stato e delle istituzioni statali, bersi nello spazio prestatale. In questo spazio politico prestatale i principali protagonisti sono i partiti”.

9 Virga, Il partito politico nell’ordinamento giuridico, Milano, 1948, pp. 273-274 (Heydte u. Sacherl, Soziologie des deutschen Parteien, München 1955, p. 69).

10 Cfr. Basso, Natura e funzioni dell’opposizione nell’ordinamento costituzionale italiano, in Studi sulla Costituzione, II, Milano, 195$, pp. 375-391.

Si veda anche Esposito: “Insomma la Costituzione vuole che anche il cittadino che non ha votato per i partiti di maggioranza, e che è legato a partiti e deputati in minoranza, possa concorrere attraverso i suoi deputati di minoranza ed il suo partito alla determinazione dell’indirizzo politico del paese e vuole che il governo, pur godendo della fiducia particolare di determinati gruppi e partiti, non sia il governo di quei soli gruppi, o di quei soli partiti, ma fin dove è possibile di tutti i gruppi e partiti” (Intervento al convegno dei giuristi cattolici in I partiti politici nello Stato democratico, p. 70). Analogamente il leader della socialdemocrazia tedesca Schumacher, “Lo Stato non consiste solo nel governo e neppure solo nell’opposizione; esso consiste nel governo e nell’opposizione” (Turmwächter der Demokratie, 2, Berlin, 1953, p. 217).

11 Il testo dei due articoli da me proposti era il seguente: “1. Tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente e democraticamente in partito politico, allo scopo di concorrere alla determinazione della politica del paese. 2. Ai partiti politici, che nelle votazioni pubbliche abbiano raccolto non meno di 500.000 voti, sono riconosciute, sino a nuove votazioni, attribuzioni di carattere costituzionale a norma di questa Costituzione, delle leggi elettorali e sulla stampa, e di altre leggi”.

12 Il sistema elettorale nella Costituzione italiana, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1952, IV, p. 856.

13 “La relazione Stato-partito va colta nei suoi termini originari. L’art. 49 esprime un principio fondamentale non solo nel settore dei rapporti politici ma anche in ordine alla stessa organizzazione dell’ordinamento. Riferire ai partiti politici il potere di determinare la politica nazionale è disposizione che investe nei suoi fondamenti la tradizionale distribuzione del potere politico nell’organizzazione dello Stato moderno. […] I partiti sono assunti ed elevati a centri nevralgici e determinanti della direzione politica dell’ordinamento. Vi è un procedimento di determinazione politica nell’ambito della stessa comunità le cui fasi e i cui fini sono svolti dai partiti. L’organizzazione politica dello Stato, che dalla comunità deriva ed è formata, ne risulta necessariamente condizionata. Ed è questo il significato e il rilievo dell’art. 49: questo non presuppone una organizzazione politica dello Stato già costituita e valida, ma ne concerne e vincola la stessa formazione” (Sica, Le associazioni nella Costituzione italiana, Napoli, 1961, pp. 104105).

14 Orlando, Sui partiti politici. Saggio di una sistemazione scientifica e metodica, in Scritti di sociologia e politica in onore di Luigi Sturzo, II, Bologna 1953, p. 606.

15 “Ora, se si considera l’ampiezza del campo che la nostra Costituzione apre ai partiti, legittimandone l’azione, non si può non rilevare l’alterazione che il loro intervento -determina nel tradizionale funzionamento degli organi dello Stato.

Anche a questo proposito occorre tuttavia tener presente il rilievo da altri già fatto, che la norma dell’art. 49 è stata emanata dai costituenti conoscendo i poteri di fatto conquistati dai partiti e l’influenza da essi esercitata; quella norma ha così reso conforme a Costituzione i loro interventi per determinare la politica nazionale” (Carraro, Organizzazione ed azione dei partiti nell’ordinamento dello Stato, in I partiti politici e lo Stato democratico, Roma, 1959, p. 42).

Accanto alla dottrina germanica del Parteienstaat si veda per la Francia lo studio di Pascal Arrighi, Le statut des partis, Paris, 1948; che lo chiama Etat par titaire, distinguendolo dall’Etat libéralindividualista e dall’Etat partisan totalitario.

16 Esposito, op. cit., p. 231.

17 Ibidem, p. 229.

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