Il mito della caverna di Platone – Siamo schiavi delle paure e delle abitudini?

di Davide Gionco

Il famoso filosofo Platone racconta nel settimo libro dell’opera La Repubblica il famoso mito della caverna.
Le parole vengono messe in bocca a Socrate, maestro di Platone.


In séguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza di educazione, a un’immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sí da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo.
Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada.
Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini.

Vedo, rispose.

Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono.

Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri.

Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte?

E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita?

E per gli oggetti trasportati non è lo stesso?

Sicuramente.

Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni?

Per forza.

E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa?

Io no, per Zeus!, rispose.

Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali.

Per forza, ammise.

Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall’incoscienza.
Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente ad alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che cosí facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace di scorgere quegli oggetti di cui prima vedeva le ombre.
Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive di senso, ma che ora, essendo piú vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi piú essere, può vedere meglio? e se, mostrandogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe piú vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso?

Certo, rispose.

E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? e non li giudicherebbe realmente piú chiari di quelli che gli fossero mostrati?

È cosí, rispose.

Se poi, continuai, lo si trascinasse via di lí a forza, su per l’ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s’irriterebbe di essere trascinato?
E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere.

Non potrebbe, certo, rispose, almeno all’improvviso.

Dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore.
E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell’acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare di notte i corpi celesti e il cielo stesso piú facilmente che durante il giorno il sole e la luce del sole.

Come no?

Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria.

Per forza, disse.

Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano.

È chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà cosí.

E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro?

Certo.

Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai primi riservati a chi fosse piú acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e piú rammentasse quanti ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? o che si troverebbe nella condizione detta da Omero e preferirebbe “altrui per salario servir da contadino, uomo sia pur senza sostanza”, e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo?

Cosí penso anch’io, rispose; accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel modo.

Rifletti ora anche su quest’altro punto, feci io. Se il nostro uomo ridiscendesse e si rimettesse a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole?

Sí, certo, rispose.

E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?

Certamente, rispose.

Tratto da:
(Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari, 1967, pagg. 339-342)


 

Come possiamo interpretare questo mito guardando ai nostri giorni?

La luce, fuori dalla caverna, è ciò che ci consente di vedere con chiarezza il mondo in cui viviamo, cosa che restando nella caverna non era possibile fare.
Restando nella caverna non solo non si riesce a guardare fuori, ma si ha persino paura di mettere in discussione le proprie certezze e si ritengono dei folli coloro che ci raccontano di un mondo diverso da come noi lo vediamo.

La prigionia degli uomini in fondo alla caverna è soprattutto mentale. Potrebbero liberarsi dalle catene fisiche, ma la paura di mettersi in discussione e l’abitudine a alla buia vita di caverna portano all’inazione.

Per comprendere gran parte dei problemi del mondo di oggi non è necessario fare dei grandi studi: è soprattutto necessario avere il coraggio di mettersi in discussione, imparando a guardare lo stesso mondo con degli occhi diversi.

Non prendiamo a priori per folli coloro che ci propongono di guardare il mondo in modo diverso: potrebbero essere persone che, prima di noi, sono state capaci di uscire dalla caverna per guardare il sole con i loro occhi. Solo uscendo dalla caverna, e guardando con i nostri occhi, potremo renderci conto di persona se quelle persone avevano ragione o se erano solo dei folli.

Oggi viviamo in un modo in cui poche persone sono in grado di manipolare gran parte delle informazioni che riceviamo attraverso i mass media e persino attraverso la scuola.
Queste manipolazioni sono come l’oscurità della caverna, ci mettono dei filtri davanti agli occhi, impedendoci di comprendere la realtà in cui viviamo e da dove arrivano realmente i nostri problemi sociali ed economici.
Proviamo a fidarci di chi ci propone di uscire dalla caverna.
Non abbiamo paura di andare a vedere la luce.

Lascia un commento