I DIRITTI UMANI E LO STATO DELLA CIVILTÀ Articolo 11. Una giustizia ancora da attuare

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Ciao, vediamo subito il testo dell’ultimo articolo della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo che si riferisce direttamente all’ambito della giustizia.

Articolo 11

1. Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo nel quale egli abbia avuto tutte le garanzie necessarie per la sua difesa.

2. Nessun individuo sarà condannato per un comportamento commissivo od omissivo che, al momento in cui sia stato perpetuato, non costituisse reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non potrà del pari essere inflitta alcuna pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso.

Credo non si possa negare che i temi della presunzione d’innocenza e del giusto processo siano ancora irrisolti e quanto mai attuali.

Il diritto alla difesa ed al giusto processo per qualsiasi persona e la necessità che la comunità si protegga dal crimine devono ancora trovare un vero equilibrio che non leda diritti civili, doveri istituzionali e le giuste aspettative per una civiltà evoluta nel diritto.

La questione della presunzione d’innocenza è spesso viziata da interessi politico-mediatici e da altri, di cui ci occuperemo più avanti, che determinano eccessi e squilibri di vario genere.

La sfera amministrativa del Paese dovrebbe essere tenuta ad assicurare, per quanto possibile, che i suoi componenti seguano una ben precisa deontologia anche a costo di restringere privilegi e garanzie che la Costituzione offre loro proprio per difendere la politica stessa.

Violazioni accertate e flagranti oltre ogni ragionevole dubbio dovrebbero quindi portare ad allontanamenti immediati dalla sfera pubblica, fermo restando il naturale svolgimento del processo in cui si delimiterebbe la verità sul reato.

Il pericolo opposto è quello per cui vediamo salire sul “patibolo” soggetti ed amministratori pubblici, per violazioni procedurali quasi impossibili da evitare in un Paese come il nostro, che si risolvono nella maggior parte dei casi in assoluzioni per reati insussistenti.

La politica deve snellire l’enorme corpus normativo e far sì che il corso della giustizia faccia sempre più riferimento ai principi irrinunciabili e vitali della democrazia di uno Stato di diritto, a cui le leggi dovrebbero sempre adeguarsi: la sua Costituzione e gli universali diritti umani.

La politica dovrebbe anche pretendere che i media svolgano il servizio di informazione e denuncia, irrinunciabile per la democrazia, senza violare gli stessi diritti universali che tutto il Paese è tenuto ad osservare: troppe volte abbiamo visto persone soggette ad una gogna mediatica indegna di un vero Stato di diritto.

Come affermavo sull’articolo relativo al diritto umano numero 8 abbiamo una situazione ancora peggiore, se possibile, per quanto riguarda il “giusto processo” di cui ci occupiamo qui, che deve ancora realizzarsi pienamente: troppe possono essere le differenze tra accusa e difesa dovute a fattori quali la capacità economica dei soggetti; i giudici dovrebbero tenerne sempre conto ma soprattutto la politica e il diritto dovrebbero trovare soluzioni e rimedi a questi squilibri.

Oltre a ciò non dobbiamo dimenticare che gli imputati in stato di detenzione, certamente da abbreviare il più possibile per arrivare quanto prima a processo, debbano essere trattati dignitosamente e separati dai condannati.

Veniamo ora ad un aspetto particolare che spesso impedisce il giusto processo e l’attuazione di un iter adeguato al ripristino della dignità del reo, finalizzato al suo rientro “indolore” e proficuo in società: quello riguardante la cosiddetta “capacità di intendere e volere”.

Determinare questa capacità, come si può ben capire, è una questione soggetta ad un gran numero di variabili sociali, culturali, personali e psicologiche difficilmente “quantificabili” e dimostrabili: le psico-“scienze” hanno con tutta evidenza dimostrato la loro incapacità oggettiva di dare un parere “scientifico”, equilibrato ed inoppugnabile in sede processuale.

Il loro operato è del tutto “insoddisfacente” e la giurisprudenza dovrebbe rivedere l’enorme credito dato a queste materie, anche sulla scorta delle osservazioni di una consistente fetta del mondo della cultura.

Ciò che succede, normalmente e di fatto, è l’annullamento o la “riduzione” del reato e la de-responsabilizzazione di chi lo commette.

Oltre ad impedire una vera e “salutare” presa di coscienza con conseguente responsabilizzazione da parte del reo, si contribuisce a creare un senso di profonda sfiducia nella giustizia e nella possibilità di una tranquilla convivenza sociale all’ombra di un saggio ed onesto Stato di diritto.

Sempre riguardo alla grave consuetudine da parte del Giudice di richiedere “consulenza” ad esponenti delle psico-“scienze”, non dobbiamo dimenticare l’enorme casistica di sentenze e disposizioni che distruggono famiglie e adolescenti, dovute a quella che sembra essere una vera e propria “smania” distruttiva di famiglie da parte di questi signori che, oltretutto, può nascondere interessi economici e privati di vario genere che gravano sui più deboli.

È di assoluta importanza che il Giudice si riprenda il ruolo che gli spetta di “perito dei periti”, ora lasciato in mano a “consulenti” di assai dubbia legittimità etica e scientifica.

Una vera giustizia non può avvenire in presenza di tendenze de-responsabilizzanti ed assolutorie da un lato, o da altre più “populiste” e criminalizzanti di segno opposto.

Per quanto riguarda i minori dobbiamo anche evidenziare che l’evoluzione sociale e culturale ci mostra, purtroppo, quanto sia sempre meno giustificata la tendenza moderna all’incremento dell’età imputabile.

Riguardo al secondo comma del presente articolo credo ci sia poco da dire sulla sua opportunità: non si può sanzionare un comportamento non considerato reato al momento della sua attuazione.

Andando più a fondo vediamo però che il diritto, anche internazionale, fa una distinzione per l’ambito “civile”, in cui la retroattività potrebbe essere ammessa.

Andando ancora più a fondo potremmo interrogarci sulla distinzione degli ambiti penale/civile, per finire in riflessioni generali su diritto e giustizia che prenderebbero molto più spazio di un breve articolo, ammesso che ne abbia cultura e capacità.

Ad ogni modo, credo sia del tutto ovvio che la necessità di “graduare” l’ambito del comportamento reciproco per regolarlo in maniera “giusta”, “soddisfacente” e “funzionale” è certamente soggetto ad infinite variabili socio-culturali, che hanno determinato l’evoluzione del diritto e dei sistemi giudiziari.

Seguendo l’ottica e l’etica dei diritti umani, credo che in tema di diritto ed amministrazione della giustizia si debba sempre tener presente il seguente fatto: oltre al danno particolare qualsiasi reato è anche una violazione dell’accordo sociale stesso, un atto distruttivo verso l’integrità della comunità.

A questo punto abbiamo un’altra considerazione della massima importanza sulla questione del “giusto processo”, che non si dovrebbe mai dimenticare: oltre al fatto che con i suoi atti si mette automaticamente “fuori” dell’accordo sociale, il reo dovrebbe riconoscere che con i suoi reati compie un’opera di progressiva “demolizione” della sua stessa libertà e dignità.

L’amministrazione della giustizia dovrebbe pertanto contemplare misure sanzionatorie di separazione momentanea del reo dal consesso sociale, senza però continuare a demolire la sua integrità personale, favorendone anzi il ripristino.

Considerando l’etica dei diritti umani e l’evoluzione dello Stato di diritto, la “separazione” dalla società civile del reo dovrebbe avere come unico obiettivo quello di far sì che la misura di giustizia possa farlo rientrare in accordo con la comunità, mettendolo in condizione di fornire alla comunità stessa un contributo eccezionale ed esclusivo, per “riparare” al danno compiuto.

Il diritto di vivere in una comunità pacifica e ordinata, non dovrebbe porre ostacoli a misure di giustizia particolarmente severe per reati di vasta entità e grande organizzazione nella “modalità delinquenziale”: tali situazioni dovrebbero portare ad una maggiore durezza nel separare i rei dalla comunità, finanche dal consesso familiare ove risulti evidentemente coinvolto.

Ad ogni modo, possiamo vedere che una “giustizia” esclusivamente punitiva contribuisce, statistiche alla mano, al “cronicizzarsi” della delinquenzialità, alla coazione a ripetere reati da parte dei soggetti coinvolti.

Quanto auspicato non è in effetti totalmente “intentato” dall’evoluzione del diritto, quanto piuttosto mal realizzato e soggetto, evidentemente, a troppe complicanze e scappatoie atte, di fatto, a favorire chi riesce ad avvalersi di avvocati ed esperti lautamente pagati che “sguazzano” in questa confusione.

Un vero Stato di diritto “sovrano” dovrebbe invece poter investire nella giustizia per rifornirla di tutti i mezzi e del personale adatto per potenziare grandemente lo statuto del patrocinio gratuito e del Difensore Civico.

Una “giustizia giusta” ispirata ai diritti dell’uomo deve garantire equanimità, rigore e giustizia, senza assumere squilibrate forme vessatorie/assolutorie che non arrecano beneficio alla comunità, a chi subisce il reato ed a chi lo determina.

La morale di quanto fin qui espresso dovrebbe responsabilizzare tutti, necessariamente, nel far sì che una nuova politica metta la voce “giustizia” fra le priorità assolute, pena il rischio di retromarce violente e illiberali su un tema assai delicato e determinante la fiducia collettiva in una libera socialità nel diritto.

 

Massimo Franceschini, 18 gennaio 2018

Questo il bellissimo video relativo all’Art. 11 dell’associazione no-profit: “Gioventù per i Diritti Umani

il mio libro, un programma politico ispirato ai diritti umani

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