FRANCIA: Il motto «libertà, concorrenza, finanza» ha sostituito quello di «libertà, uguaglianza, fraternità»

di:
David Cayla, Philippe Légé, Catherine Mathieu, Christophe Ramaux ed Henri Sterdyniak (membri di “Economisti arabbiati” e co-autori dell’opera “Macron, la svolta sbagliata, i legami che liberano”)

Il regime neoliberista, sotto l’influenza dei capitali finanziari, si focalizza sulla riduzione della spesa pubblica, acuendo le disuguaglianze e fomentando la collera, secondo questi «economisti arrabbiati».

Con l’elogio dei “primi della cordata”, il motto «libertà, uguaglianza, fraternità» è stato sostituito da «libertà, concorrenza, finanza». La collera non poteva che aumentare. Le risposte del potere non sono all’altezza. Come si il contribuente dovesse da ora in poi pagare l’aumento dei salari, l’aumento dei premi di produttività avviene invece di quello del salario minimo (lo SMIC). Lo stesso per le ore straordinarie, il che va contro le nuove assunzioni. La crisi è profonda. Non se ne potrà uscire senza un autentica cambiamento di rotta e di dottrina economica.

Prima della Rivoluzione Francese si designava come “ignobile” il popolo costretto a pagare le imposte, mentre i nobili ne erano esentati. Il sentimento dîngiustizia fiscale che prevale oggi è legittimo. Per ridare consenso verso il sistema fiscale ed alla coa pubblica (res publica), è fondamentale porre fine alla secessione dei ricchi. Lottare contro le frodi e l’evasione fiscale, ristabilire l’imposta di solidarietà sulla fortuna, ritornare al prelievo forfettario del 30 % sui redditi finanziari ed aumentare le imposte sulle grandi successioni: tutto questo è possibile.

Discorso menzognero

Andando più in fondo, è necessario uscire dal discorso menzognero della spesa pubblica, sugli incassi fiscali e sul debito pubblico. Il peso del debito pubblico non è catastrofico: anche se lo Stato lascia aumentare il debito, cosa che non ha nulla di scioccante, c’è più denaro che entra nelle casse pubbliche (372 miliardi presi in prestito nel 2017) di quanto ne esce (308 miliardi di capitale da rimborsare e 40 miliardi di interessi), il che permette di finanziare degli investimenti per le generazioni future. L’aumento dell’indebitamento pubblico (circa il 100 % del PIL oggi contro il 25 % nel 1982), non si spiega per la deriva della spesa, ma con le politiche che hanno soffocato l’economia reale tramite l’austerità, che hanno moltiplicato le regalie ai più ricchi e provocato la crisi del 2008. La strategia dei dirigenti consiste nell’«affamare la bestia»: discutono di deficit e di debiti – que essi stessi creano – pour ridurre lo Stato Sociale e trasferire agli interessi privati (fondi pensione, compagnie d’assicurazioni,  de pension, compagnies d’assurances, società quotate in borsa…) il denaro delle pensioni, delal sanità e dei servizi pubblici.

«La quota di spesa pubblica è del 56% del PIL». Sbandierata incessantemente questa cifra lascia intendere che al privato non resti che il 44%, il che è totalmente falso. La spesa pubblica (1’300 milliardi) equivale al 56% del PIL (2’300 milliards). Ma non si tratta di una parte.
La spesa pubblica ha due voci principali. I servizi pubblici: i dipendenti pubblici contribuiscono al PIL  (375 miliardi) e la loro produzione  (polizia, ospedali, insegnamento…), gratuitamente disponibile, si paga con le imposte. Essa rappresenta il 17 % del PIL, un importo stabile da  35 anni che può quindi essere aumentato per rispondere a dei bisogni crescenti della popolazione. La seconda voce sono le prestazioni (pensioni, assegni familiari, assegni di disoccupazione…) ed i trasferimenti sociali (visite mediche e medicine rimborsate…), che sono una voce molto più importante (590 miliardi). Lungi dall’essere un “costo” per le famiglie, queste prestazioni aumentano la loro disponibilità economica ed il loro potere di acquisto nel settore privato dell’economia.

Lo Stato Sociale riduce fortemente le diseguaglianze: da 1:8 fra il 20% più povero ed il 20% più ricco in termini di imponibile lordo (salario, rendite patrimoniali) esse passano a 1:7 tramite la fiscalità diretta e a 1:3 grazie ai servizi pubblici ed alle prestazioni. In certi paesi l’educazione, la pensione o la sanità sono molto più privatizzate. La spesa pubblica e la tassazione obbligatoria sono più basse, ma i pagamenti obbligatori privati (assicurazioni, fondi pensione…) sono più elevati. Le prestazioni private costano lo stesos per tutti e sono spesso più costose che se fossero erogate dallo Stato. Gli Americani spendono per la loro salute il 18 % del PIL, contro il 12% che viene speso in Francia, per una speranza di vita inferiore di 3 anni.

Contrazione dello Stato Sociale

Certamente ci sono delle spese pubbliche che si possono ridurre, ad esempio gli aiuti a pioggia alle imprese che non hanno consentito di rilanciare gli investimenti ed il cui impatti sull’impiego è stato irrilevante e spesso addirittura negativo, se si tiene conto (cosa che raramente è stata fatta) l’effetto recessivo causato, per finanziarli, dai tagli su altre voci di spesa pubblica.

Certamente è il caso di aiutare certi lavoratori in proprio e certe imprese in difficoltà o di ridurre certe imposte (ad esempio l’IVA sul trasporto pubblico). Ma guai a strumentalizzare la crisi per andare oltre nella contrazione dello Stato Sociale. Abbiamo bisogno di più risorse per la transizione ecologica, per le case di riposo per anziani, gli ospedali o le scuole. La Francia è uno dei paesi al mondo in cui il tasso di povertà fra i pensionati è il più basso. Dovremmo esserne fieri. Ma per mantenere questo bel sistema è necessario continuare in futuro a fare versamenti pensionistici senza un peso eccessivo per i lavoratori, accettando che gli utili dei lavoratori attivi aumentino un po’ meno della ricchezza globale, dato che la quota di pensionati è destinata a crescere. Il governo progetta esattamente l’opposto. Intende limitare le pensioni al 14% del PIL, il che implicherà inevitabilmente una riduzione (più del 20% da oggi al 2035) degli utili di lavoratori attivi.

E’ necessario smettere di contrapporre il pubblico e il privato. Buona parte dell’attività del settore privato è sostenuta dalla spesa pubblica (consumo dei pensionati, ecc.). L’economia non è un gioco a somma nulla. Durante i 30 anni gloriosi la spesa pubblica e le retribuzioni aumentarono costantemente, il che portò alla crescita del settore privato, cosicché la spesa pubblica in percentuale del PIL aumentò di poco. È questo circolo virtuoso che deve essere ricreato.

Imprese salariali

Viviamo in imprese salariali. L’essenziale del mercato delle imprese, e dunque la loro attività, dipende dai salari diretti e indiretti (le pensioni e gli assegni pagati tramite la spesa sociale). Il salario non è il nemico, ma l’amico dell’impiego.

Il regime neoliberista accresce il peso del capitale finanziario sulle imprese, L’austerità salariale permette di aumentare i dividendi, gli acquisti di azioni e le fusioni-acquisizioni (essenzialmente all’estero), a tutto danno degli investimenti e dell’impiego. Le grandi imprese sono prese a tenaglia fra questa “finanza a corto termine” e vorace, da un lato, e fra gli alti dirigenti, spesso autocrati ed immersi negli eccessi (Carlos Ghosn non è purtroppo una eccezione). E’ tempo di uscire dalla concezioine liberiste e arcaica di impresa, che non guarda che agli azionisti, che nega che i lavoratori sono una parte costituente di essa.

Rovesciamento delle prospettive

Per imporre il loro programma i neoliberisti hanno sistematicamente aumentato il potere della finanza ed organizzato il dumping sociale ed ambientale tramite i trattati di libero scambio commerciale: compressione dei salari e delle prestazioni, in nome della competitività, riduzione delle imposte per i più ricchi e sulle imprese in nome dell’attrattività. Le regole europee e dell’euro amplificano quelle della mondializzazione liberista. I paesi europei rivalizzano fra loro a livello sociale e fiscale. L’euro è sottovalutato per la Germania e sopravvalutato per il paesi del Sud Europa e della Francia. Il surplus commerciale della Zona Euro supera il 3% del PIL (più della Cina!), il che testimonia una domanda interna insufficiente.

La Francia deve proporre un rovesciamento delle prospettive: smettere di usare l’Europa come arma di smantellamento degli stati sociali nazionali, proporre un piano di rilancio (più importante nei paesi a surplus commerciale, come la Germania) con un aumento dei salari e degli investimenti pubblici (in particolare per l’ecologia). In caso di blocco da parte della Germania, essa deve proporre agli altri paesi che lo desiderano (Spagna, Italia, Portogallo pesano, con la Francia, oltre il 50% del PIL della Zona Euro) di rompere con le attuali regole europee e di fare parte di questo patto per la ricostruzione. L’esigenza di uguaglianza è di nuovo in aumento nel nostro paese. E’ un’oiccasione da cogliere. Il neoliberismo ha come carburante la disuguaglianza. E’ tempo di cambiare pagina.

Tratto e tradotto da:
https://www.liberation.fr/debats/2018/12/21/la-devise-liberte-concurrence-finance-a-remplace-celle-de-liberte-egalite-fraternite_1699001?fbclid=IwAR314Tuck_zbv-B9aErfg8b2BcU8hTlCAr7clvuufBaphf1ZP5uvZ2w2mZk

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