Dimenticate il « libero commercio » – Gli effetti della libera circolazione dei capitali

Abbiamo tradotto questo interessante articolo di Charles Hugh Smith, pubblicato il 9 marzo 2018 su:
https://www.oftwominds.com/blogmar18/free-trade3-18.html

L’articolo spiega come l’idea che abbiamo di commercio internazionale non abbia nulla a che vedere con la realtà di un commercio che è, prima di tutto, un flusso incontrollato di capitali in tutto il mondo.


In un mondo dominato dalla mobilità dei capitali, i capitali mobili sono il vantaggio comparativo.

I difensori ed i critici del « libero commercio » e della globalizzazione tendono a presentare la questione come intrinsecamente buona o cattiva. Nel mondo reale, però, non è così semplice.

La confusione comincia dalla definizione di “libero commercio” (e, per estensione, della globalizzazione).

Nella definizione classica del libero commercio esposta nel XVIII secolo dall’economista inglese Davide Ricardo il commercio viene generalmente pensato come dei beni spediti da una nazione ad un’altra, in modo da trarne un vantaggio che ricardo chiamò “vantaggio comparativo”: le nazioni trarrebbero beneficio da qualsiasi cosa che producono in modo efficiente ed importeranno ciò che non sanno produrre in modo efficiente. Mentre il concetto di Ricardo è intuitivamente attraente, in quanto risulta conveniente per entrambe le parti, l’importatore e l’esportatore, non descrive le conseguenze della mobilità dei capitali.

Il capitale – contanti, crediti, strumenti di pagamento ed il capitale intangibile delle competenze- si muove liberamente per il mondo, cercando il più alto ritorno possibile, perseguendo la prima direttiva del capitale: “espandersi o morire

Il capitale che non riesce ad espandersi, resta stagnante o si contrae. Se la contrazione è continua in quanto il capitale non è stato tenuto sotto controllo, il capitale può anche eventualmente scomparire.

La mobilità del capitale altera radicalmente la visione semplicistica del libero commercio.

Nel mondo odierno il commercio non può essere correttamente misurato come beni che si spostano fra le nazioni, in quanto il capitale dalla nazione importatrice possiede i beni produttivi nella nazione esportatrice. Se la Apple possiede una fabbrica (o una joint venture) in Cina e raccoglie virtualmente tutti i profitti dai gadget lì prodotti, questa realtà non può essere catturata dai modelli di semplice commercio descritti da Riccardo.

Nella versione globalizzata odierna del “libero commercio”, il capitale mobile può arbitrare manodopera, valute, tassi di interesse, oneri normativi e favori politici, cambiando le nazioni ed i beni economici ai quali è legato. Cercare di spiegare il commercio attuale con le modalità di spedizione delle merci fra nazioni nel XVIII secolo è privo di senso, in quanto le componenti provengono da diverse nazioni e i profitti non vanno alla nazione di origine, ma dai proprietari del capitale.

Recentemente in un articolo sulla rivista Foreign Affairs si è parlato di questi indicatori fuorvianti: se i numeri degli scambi fossero calcolati più accuratamente di quanto vengano fabbricati i prodotti, si potrebbe stabilire che gli USA non hanno alcun deficit commerciale con la Cina. Il problema, in sostanza, è che le cifre del commercio sono attualmente calcolate sul presupposto per cui ciascun prodotto ha un unico paese di origine e che gli utili dichiarati dalla vendita di tale prodotto vadano in quel paese.

Così, ogni volta che un iPhone o un iPad esce dalla fabbrica di Foxconn (l’appaltatore principale di Apple in Cina) e viaggia fino al porto di Long Beach, in California, viene conteggiato come importazione dalla Cina, poiché è lì che subisce la sua “trasformazione sostanziale finale”, che è il criterio utilizzato dal WTO per determinare quali beni assegnare a quali paesi.
Tutti gli iPhone venduti da Apple negli Stati Uniti aggiungono circa 200 $ al deficit commerciale tra Stati Uniti e Cina, secondo i calcoli di tre economisti che hanno esaminato il problema nel 2010. Questo significa che dal 2013 le vendite di iPhone negli Stati Uniti da sole hanno aggiunto 6-8 miliardi di dollari al deficit commerciale annuo degli USA con la Cina, se non di più.

Utilizzando dei criteri di calcolo più ragionevoli, ovviamente, si riconoscerebbe che iPhone e iPad non hanno un unico paese di origine. Più di una dozzina di aziende di almeno cinque paesi forniscono componenti per essi. Infineon Technologies, in Germania, produce il chip wireless; Toshiba, in Giappone, produce il touchscreen; e Broadcom, negli Stati Uniti, produce i chip Bluetooth che consentono ai dispositivi di connettersi a cuffie o tastiere wireless.
Gli analisti si discostano su quanta parte del prezzo finale di un iPhone o di un iPad dovrebbe essere assegnata a quale paese, ma nessuno contesta che la fetta più grande non debba andare alla Cina ma agli Stati Uniti. La proprietà intellettuale, insieme al marketing, è infatti la più grande fonte di valore dell’iPhone.
Prendere in considerazione questi fatti lascerebbe la Cina, il presunto paese di origine, con un pezzo di torta insignificante. Gli analisti stimano che del valore di ogni iPhone o iPad solo 10 $ finiscano effettivamente nell’economia cinese, sotto forma di reddito pagato direttamente a Foxconn o ad altri appaltatori.

In un mondo dominato dalla mobilità dei capitali, i capitali mobili sono il vantaggio comparativo.
Il capitale mobile può prendere in prestito miliardi di dollari (o equivalenti) in una nazione a bassi tassi di interesse e quindi utilizzare quel capitale per finanziare attività in un’altra nazione con poche possibilità di credito.

Il capitale mobile può sopraffare il sistema politico locale, acquistando condizioni di favore, il tutto con denaro preso a prestito a tassi di interesse vicini allo zero. Il capitale mobile può acquistare e sfruttare risorse e manodopera a basso costo fino a quando la risorsa non è esaurita o fino a che la concorrenza riduce i margini di profitto. A quel punto, il capitale mobile chiude le fabbriche, licenzia i dipendenti e prosegue da altre parti.

Dov’è il “libero commercio” in un mondo in cui il vantaggio comparativo è detenuto dal capitale mobile? E cosa offre al capitale mobile il suo vantaggio essenzialmente senza limiti? Le banche centrali emettono trilioni di dollari in denaro quasi gratuito per banche e altre istituzioni finanziarie che incanalano la liquidità a buon mercato verso le corporation o le società finanziarie, le quali possono quindi andare in giro per il mondo acquisendo attività, avviando risorse e giocando un ruolo attivo negli squilibri globali grazie a questo denaro quasi gratuito.

Non c’è nulla di lontanamente “libero” nel commercio basato non sul semplice concetto di “vantaggio comparativo” di Ricardo, ma sui flussi di capitale generati dalle creazioni di liquidità della banca centrale.
I guadagni vengono moltiplicati tramite il flusso di capitali mobili verso coloro che controllano il capitale mobile: le multinazionali, il mondo della finanza e le banche. Non meravigliamoci se in economia gli utili da lavoro stanno stagnando in tutto il mondo, mentre i profitti delle corporation raggiungono livelli senza precedenti.


Andamento dei profitti delle corporation al netto delle tasse

Andamento dei redditi da lavoro, nel settore non agricolo

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