Come funziona la finanza islamica: c’è molto da imparare per una finanza più etica

di Claudia Addona

La si conosce ancora poco e forse è vista, soprattutto in questo ultimo periodo, come qualcosa di sospetto.

La finanza islamica rappresenta poco meno del 3% della finanza mondiale, contando affari per circa 2 trilioni di dollari, anche se dai primi anni 2000 ormai le istituzioni islamiche hanno assunto un peso sempre più significativo.

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Per finanza islamica si intende l’insieme degli strumenti, delle pratiche, delle transazioni e dei contratti che sono conformi ai dettami della Shari’ah, vale a dire la legge di Dio.

Questo perché nell’Islam i precetti contenuti nella Shari’ah non hanno una valenza limitata alla sfera privata, ma costituiscono principi validi per ogni settore della vita del credente.

Nello specifico possiamo considerare fonti di produzione religiosa del diritto islamico:

  1. Il Corano, libro sacro contenente le rivelazioni del profeta Maometto.
  2. L’Hadit, detti del profeta Maometto, trasmessi prima oralmente e poi trascritti.
  3. La Sunna, racconto della vita di Maometto e dei suoi primi seguaci.
  4. La giurisprudenza, lavoro dottrinale/interpretativo delle principali scuole giuridiche.

Ma se è immediata la definizione di finanza islamica, è più complicato avere un’interpretazione univoca della Shari’ah. Infatti nei paesi islamici non esiste un’autorità centrale in grado di imporre un unico dogma alle diverse comunità locali. Esistono diverse scuole giuridiche (sunnite e sciite), le quali si prestano ad ulteriori divisioni interne dando vita ad una molteplicità di interpretazioni giurisprudenziali e di prassi. Per ovviare a questa difficoltà, che ostacolerebbe lo sviluppo della finanza islamica, sono stati creati diversi organismi internazionali con lo scopo di fornire indirizzi interpretativi comuni. Tra i più importanti troviamo l’Accounting and Auditing Organization for Islamic Financial Intitutions e l’Islamic Financial Services Board.

I testi sacri impartiscono prescrizioni dettagliate circa alcuni aspetti della vita economica, quali l’importanza del lavoro e della proprietà privata; il commercio, la concorrenza e il monopolio.

I credenti sono incoraggiati al lavoro, al guadagno economico e all’investimento, anche se ciò riguarda solo gli uomini.
L’islam garantisce e ritiene un diritto inviolabile la proprietà privata, anche se con alcune limitazioni; infatti, tutti i beni sono donati agli uomini da Allah, per cui l’uso della proprietà deve rispettare sempre la natura e il prossimo, ma nessuno può essere privato dei beni necessari per poter vivere dignitosamente.
Altro precetto fondamentale per la religione islamica è l’equa distribuzione delle ricchezze: secondo il Corano, le risorse della terra sono presenti in quantità giuste a soddisfare i bisogni di ogni persona; la scarsità può risultare solo dall’avidità e dall’incapacità dell’uomo di gestirle.

La conseguenza sul piano economico è il divieto al monopolio, in quanto esso genera disparità, mentre è incoraggiata e promossa la concorrenza.

Ma quali potrebbero essere le possibili operazioni finanziarie?

La novità più rilevante sarebbe l’introduzione dei sukun, ossia certificati di investimento islamico, comunemente indicati come “bond islamici”. A fianco a questa nuova tipologia potrebbero esordire nel nostro Paese altri strumenti quali: il murabaha, un contratto diffuso nel credito al commercio e in quello all’importazione; ijarah, contratto di leasing; istisna’a, due successivi contratti di compravendita utilizzati per finanziare la produzione o la costruzione di beni.

Risolto il problema interpretativo, è stato possibile individuare quattro principi fondamentali che sovraintendono alla regolazione di qualsiasi attività economica:

  1. Il divieto del ribà (interesse) e il principio della condivisione del rischio e del rendimento;
  2. Il divieto di speculare (maysir) e di introdurre elementi di incertezza nei contratti (ghàrar);
  3. La proibizione dell’uso, commercio o investimento in beni o attività proibite (haram) come quelle legate al tabacco, alla pornografia, al commercio di armi, all’alcol, alla carne di maiale e al gioco d’azzardo;
  4. La zakàh e la distribuzione equa della ricchezza.

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Ribà letteralmente significa “incremento”, tecnicamente viene usato per indicare gli “interessi”. La proibizione del ribà ha come obiettivo quello di garantire l’equità e la giustizia economico-sociale e prevenire ogni forma di sfruttamento. Esso si fonda sul principio secondo cui non può esistere alcun guadagno senza prima l’assunzione di un rischio; ovvero, è considerato vietato qualunque arricchimento non giustificato dall’operosità attiva dell’uomo.

Qualsiasi ritorno positivo (fisso o variabile che sia), che venga garantito a prescindere dalla performance dell’investimento è da considerarsi vietato. Nel dettaglio, siamo in presenza di ribà quando un tasso di interesse è fissato ex ante, è legato al fattore temporale e all’ammontare del prestito, è dovuto a prescindere dai risultati economici ottenuti con l’impiego del denaro prestato.

Ogni profitto deve essere economicamente ed eticamente giustificato, non può esserci guadagno senza rischio e senza sforzo. Solo lo sforzo fisico e intellettuale può essere remunerato; economicamente parlando: soltanto la reale crescita effettiva del capitale, ottenuta tramite il suo impiego, può essere ricompensata.

È proprio dal divieto del ribà che nasce il principio di condivisione del rischio, infatti, se può esistere guadagno solo quando chi detiene i capitali si assume delle responsabilità, diviene immediato l’obbligo di condivisione del rischio tra il detentore di capitali e l’utilizzatore di capitali a fini produttivi, ovvero tra utenti e intermediari finanziari.

Maysìr letteralmente significa “gioco d’azzardo”, pratica espressamente vietata dal Corano. In maniera più ampia, i giuristi lo hanno interpretato, nell’ambito economico, come il divieto all’assunzione di rischi eccessivi e non tipicamente imprenditoriali; all’investimento in attività puramente finanziarie, che non abbiano un legame stretto con l’economia reale.

Questo divieto trova fondamento, quindi, nel principio islamico secondo cui sono ritenute peccaminose tutte quelle attività, (come il gioco d’azzardo, appunto) che danno l’opportunità di incrementare la propria ricchezza in modo puramente casuale, scommettendo sul risultato futuro di un evento.

Nello specifico, mira ad eliminare pratiche come la speculazione, la negoziazione di derivati, ma anche la firma di contratti assicurativi convenzionali.

Il divieto di ghàrar, che letteralmente sta ad indicare una frode messa in atto approfittando della buona fede altrui, è legato all’incertezza e alla validità dei contratti.

La proibizione del ghàrar implica che un contratto, per essere valido, non debba contenere elementi di incertezza, riferendosi sia a condizioni di informazione incompleta (relativamente a un elemento essenziale della transizione) sia all’incertezza intrinseca nell’oggetto del contratto e quindi del suo effetto.

Esso si basa sui principi religiosi e morali dell’Islam che impongono l’equità e l’equivalenza delle prestazioni. Attraverso il divieto ghàrar si cerca di evitare che una delle parti contraenti possa trarre un ingiusto profitto sfruttando situazioni d’incertezza.

I giuristi islamici, consapevoli di non poter eliminare ogni forma d’incertezza, distinguono il ghàrar eccessivo, che rende nullo il contratto, dal ghàrar trascurabile, che non lo rende nullo. Questa distinzione si basa su un’analisi costi-benefici relativi al contratto, più precisamente, se l’incertezza è sostanziale, il contratto è nullo; se invece la necessità o i benefici del contratto sono superiori rispetto ai costi legati dell’incertezza, il contratto può essere stipulato.

Perché un contratto possa essere considerato conforme alla Shari’ah è necessario determinare con chiarezza: l’oggetto del contratto e le sue caratteristiche, la sua esistenza ed effettivo possesso da parte del venditore, la quantità e qualità, il prezzo e le modalità di pagamento, i tempi e le condizioni di consegna. Per questo rientrano nel divieto: la vendita di cosa futura, la vendita ad un prezzo non determinato e la vendita ad una data futura.

La parola haram significa letteralmente “proibito” e viene usata per definire tutti quei comportamenti peccaminosi e quindi vietati dalla dottrina islamica. In ambito economico, viene proibito l’uso, il commercio o l’investimento in beni o attività proibite come quelle legate al tabacco, alla pornografia, al commercio di armi, all’alcol, alla carne di maiale e al gioco d’azzardo.

Ne deriva che le istituzioni finanziarie musulmane non possono investire in certi tipi di aziende, nello specifico, è vietato l’investimento azionario in società quotate e non, che siano direttamente o indirettamente coinvolte nelle attività già citate.

Zakàh letteralmente significa carità, e corrisponde ad una vera e propria imposta che il musulmano è tenuto a pagare annualmente, a partire da un minimo imponibile, su determinati beni tassabili.

Essa si fonda sul principio, citato espressamente nel Corano, secondo cui chiunque possieda un ammontare minimo di ricchezza è obbligato a “purificare” se stesso e il suo patrimonio attraverso il pagamento di un’offerta.

La giurisprudenza sulla base delle prescrizioni coraniche precisa quali sono i beni tassabili, il minimo imponibile (nisàb), le aliquote dovute, il sistema di esazione e le norme di distribuzione.

La zakàh viene applicata a tutti quei beni in proprietà (da più di un anno) non sfruttati a fini produttivi, e che eccedono una quantità minima. Nello specifico sono soggetti a zakàh: il bestiame, i frutti della terra, i metalli preziosi e le mercanzie, ma non i beni immobili, gli animali da lavoro e l’oro e l’argento impiegati nel commercio.

Le aliquote dipendono dal bene.

All’interno degli Stati moderni sono oggetto della zakàh anche la produzione degli impianti industriali, i profitti delle imprese, le ricchezze finanziarie e le risorse naturali. In questo caso la raccolta viene effettuata direttamente dallo Stato e, in base al bene, l’aliquota varia tra il 2,5% e il 10 %.

Questo rappresentava l’ultimo dei quattro principi portanti dell’economia islamica. Per riuscire a comprendere le caratteristiche e la valutazione dei prodotti Shari’ah compliant, offerti dalla finanza islamica, era necessario chiarire, in primo luogo, le fondamenta di questa materia.

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[i] Indagini e Studi sulla Multietnicità. Studio condotto nel 2016.


Tratto da:
https://www.iusinitinere.it/la-finanza-islamica-una-realta-piu-vicina-di-quanto-si-creda-3007
e
https://www.iusinitinere.it/finanza-islamica-i-principi-portanti-3420

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