Anche i Mapuche contro i Benetton

Un conflitto tra narrazioni discordanti
Nell’agosto 2002, Atilio Curiñanco e Rosa Nahuelquir, indigeni mapuche (una popolazione amerinda stanziata tra Cile e Argentina), decidono di occupare e coltivare un appezzamento di circa 500 ettari, rivendicando i diritti ancestrali che il proprio popolo vantava da tempo immemorabile su quelle terre –appoggiandosi però anche su alcuni permessi rilasciati informalmente dalle istituzioni argentine.

Tuttavia, nel 1991 il gruppo Benetton aveva acquistato per cinquanta milioni di
dollari il controllo della Compañía de Tierras del Sur Argentino (CTSA) attraverso la holding Edizione Real Estate, diventando così la più grande proprietaria terriera del paese con novecentomila ettari di terreno, subito reimpiegati per l’allevamento di bovini da macellazione e di pecore e montoni destinati alla produzione di lana.
Ora, questi novecentomila ettari comprendevano la maggior parte del territorio atavico dei Mapuche, donato nel 1896 dal presidente argentino Uriburu (contro la legislazione dell’epoca) a dieci cittadini inglesi poi costituitisi nella Argentinian Southern Land Company – appunto, l’odierna CTSA. Di conseguenza, anche il lotto abitato da Atilio e Rosa faceva parte delle terre acquistate da Benetton.

Nel settembre 2002, l’impresa italiana intenta causa contro i due coniugi, accusati di occupazione violenta e occulta per aver abbattuto di notte i recinti della Compañía. Nell’ottobre dello stesso anno, quindici agenti della polizia provinciale cacciano gli occupanti, sequestrando i loro beni e distruggendo la loro abitazione. Nel giugno 2004, il tribunale di Esquel sancisce definitivamente lo sgombero. Nel frattempo varie organizzazioni mapuche si erano mobilitate, avviando una campagna informativa sulle azioni di Benetton in Patagonia e chiedendo la restituzione delle terre illegalmente sottratte e rivendute a stranieri.

Il loro appello è raccolto nel luglio 2004 dal premio Nobel argentino per la pace Adolfo Pérez Esquivel, che decide di scrivere direttamente a Luciano Benetton:

Nello specifico, si trattava dell’Instituto Autàrquico de Colonizaciòn (IAC), fondato nel 1957 per promuovere la colonizzazione e lo sviluppo delle terre della regione di Chubut. Il resoconto, la cronologia e la documentazione del conflitto Mapuche/Benetton, oltre alla corrispondenza tra Luciano Benetton e Pérez Esquivel (di cui parleremo poco più avanti), è reperibile sul sito del Centro
Documentazione Conflitti Ambientali: http://www.cdca.it/spip.php?article45.

Riceva il mio saluto di Pace e Bene. Le scrivo questa lettera, che spero legga attentamente, tra lo stupore e il dolore di sapere che Lei, un imprenditore di fama internazionale, si è avvalso del denaro e della complicità di un giudice senza scrupoli per togliere la terra ai fratelli Mapuche, nella provincia di Chubut, nella Patagonia Argentina. Vorrei ricordarle che Mapuche significa Uomo della Terra e che esiste una comunione profonda tra la nostra
Pachamama, “la Madre Terra”, e i suoi figli. Tra le braccia di Pachamama ci sono le generazioni che vissero e che riposano nei tempi della memoria. Deve sapere che quando si toglie la terra ai popoli nativi li si condanna a morte, li si riduce alla miseria e all’oblio. Ma deve anche sapere che ci sono sempre dei ribelli che non zoppicano di fronte alle avversità e lottano per i loro diritti e la loro dignità come persone e come popolo. Continueranno a reclamare i loro diritti sulle terre perché sono i legittimi proprietari, di generazione in
generazione, sebbene non siano in possesso dei documenti necessari per un sistema ingiusto che li affida a coloro che hanno denaro…Signor Benetton, Lei ha comprato 90 mila ettari di terra in Patagonia per accrescere la sua ricchezza e potere e si muove con la stessa mentalità dei conquistatori; non ha bisogno di armi per raggiungere i suoi obiettivi ma uccide, con la stessa forma, usando il denaro. Vorrei ricordarle che non sempre ciò che è legale è giusto, e
non sempre quello che è giusto è legale…Vorrei farle una domanda, signor Benetton: Chi ha comprato la terra a Dio? Lei sa che la sua fabbrica dagli abitanti del luogo è chiamata “la gabbia”, cinta con fil di ferro, che ha rinchiuso i venti, le nubi, le stelle, il sole e la luna. E’ scomparsa la vita perché tutto si riduce al mero valore economico e non all’armonia con la Madre Terra. Lei si sta comportando come i signori feudali che alzavano muri di oppressione
e di potere dei loro latifondi…Se decide di restituire la terra ai fratelli Mapuche mi impegno ad accompagnarla e dividere con Lei e ascoltare la voce del silenzio e del cuore.
Tutti siamo di passaggio nella vita, quando arriviamo siamo in realtà in partenza e non possiamo portare niente con noi. Possiamo, però, lasciare al nostro passare le mani piene di speranza per costruire un mondo più giusto e fraterno per tutti. Che la Pace e il Bene la illumini e le permettano di trovare il coraggio per correggere i suoi errori. Esquivel contrapponeva insomma ai diritti “legali” di Benetton i diritti “legittimi” dei Mapuche, evocando parallelamente lo spettro delle conquiste coloniali e quello delle recinzioni che, nel passaggio alla modernità, misero fine al regime delle terre comuni e inaugurarono il nuovo modello esclusivo di proprietà privata.

La risposta di Benetton non si fa attendere:

Gentile signor Pérez Esquivel, ringraziandola per la sua lettera, franca e diretta, le rispondo subito che sono disponibile a incontrarla per aprire un confronto sul tema delle terre in Patagonia…Chiedendomi “Chi ha comprato la terra a Dio?”, lei riapre un dibattito sul diritto di proprietà che, comunque la si pensi, rappresenta il fondamento stesso della società civile.
Ma se si accetta il principio che la proprietà è necessaria, si può ben discutere se sia necessario o meno che resti sempre nelle stesse mani. Da parte mia credo che nel mondo terreno e ormai globalizzato la proprietà fisica, come quella intellettuale, sia di chi può costruirla con la competenza e il lavoro, favorendo anche la crescita e il miglioramento degli altri…La nostra era, ed è tuttora, una sfida di sviluppo: trasformare questa azienda storica [la CTSA], con più di 100 anni di tradizione ma ormai decaduta, formata in gran parte da terre desertiche e inospitali, in una impresa agricola dedicata in particolare all’allevamento delle
pecore ed altre attività agricole. Senza entrare nel crudo dettaglio delle cifre, abbiamo investito per portare l’azienda a buoni livelli di produttività, ben consapevoli che questo avrebbe contribuito a produrre sviluppo e lavoro per il territorio e i suoi abitanti. I risultati fin qui ottenuti sono positivi, certo non dal punto di vista degli utili, ma sicuramente per il livello di qualità raggiunto nell’allevamento ovino e per la crescita occupazionale nell’area.
Del resto, più in generale, non penso che scoraggiare gli investimenti degli imprenditori possa rappresentare una politica alla lunga redditizia, per l’Argentina come per qualsiasi altro Paese che voglia guardare a ragionevoli obiettivi di crescita, specie in un momento così delicato per l’economia internazionale. Per questa serie di motivi, mi creda, appare quanto
meno ingeneroso descrivere le tenute argentine di Edizione Holding come latifondi medioevali improduttivi, e noi come signori feudali. Abbiamo semplicemente seguito le regole economiche in cui crediamo: fare impresa, innovare, operare per lo sviluppo, continuare a investire per il futuro…

Il ragionamento di Benetton si basa su alcuni assunti più o meno espliciti: la
proprietà privata «rappresenta il fondamento stesso della società civile», e come tale «è necessaria» al mantenimento dell’ordine sociale; la proprietà privata, fisica o Cfr. E.C.K. Gorner, Common land and Inclosure, Macmillan & Co., Londra 1912; K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca,

Per uno studio più recente, ma limitato al solo caso dell’Inghilterra del XVIII secolo, cfr. J.M. Neeson, Commoners. Common Right, Enclosure and Social Change in England, 1700-1820, Cambridge University Press, Cambridge 1993. Il tema della recinzione delle terre comuni (enclosures) sarà comunque centrale nel prosieguo della tesi. intellettuale, è associata al lavoro e, di conseguenza, all’efficienza, alla produttività, alla crescita («fare impresa, innovare, operare per lo sviluppo»); viceversa, dove il regime proprietario è assente, ci sono solo «terre desertiche e inospitali». Ora, si può discutere sullo statuto di questi assunti: in primo luogo, si può pensare che essi corrispondano all’enunciazione di una verità oggettiva, di un dato di fatto incontestabile – questo almeno sembra suggerirci il nostro senso comune. Oppure, al contrario, una lettura critica potrebbe parlare di ideologia, di un dispositivo atto meramente a fornire un paravento ideale a una serie di interessi materiali particolari –contrabbandati come se fossero gli interessi generali di tutta la comunità (l’appropriazione delle terre mapuche serve a «produrre sviluppo e lavoro per il territorio e i suoi abitanti»).

La nostra interpretazione si discosta da entrambe le soluzioni (anche se, come vedremo, più dalla prima che dalla seconda): quel che
proponiamo è di intendere la lettera di Benetton (e, ma con significati opposti, quella di Pérez Esquivel) come una forma di racconto, di narrazione. «Raccontare storie di ogni sorta – scrive Carole Pateman – è la maniera principale con cui gli esseri umani tentano di dare senso a se stessi e al proprio mondo sociale» .


Tratto da: https://augustoanselmo.blogspot.com/2020/07/i-mapuche-contro-benetton.html

Lascia un commento