Al mercato piace single

di Ilaria Bifarini

I dati parlano chiaro, il matrimonio va sempre meno di moda, il futuro è dei single.

Nell’epoca del cambiamento e della precarietà vissuti come valori e stili di vita, essere single è divenuto un nuovo status symbol.
Il sistema economico attuale ha raggiunto una fase di declino irreversibile, sulle cui cause strutturali si continua colpevolmente a glissare: il prezzo da pagare per la sua sopravvivenza è la mancanza di prospettive e stabilità lavorative.
I giovani, in particolare nel nostro Paese, sono sempre più penalizzati nell’ingresso nel mondo del lavoro, spesso scoraggiati addirittura nella ricerca, come dimostra l’alto numero di “neet”, ossia di coloro che non hanno e non cercano un’occupazione.
Per i più fortunati, a prescindere dal titolo di studio che di fatto non offre più le possibilità del passato, si tratta spesso di lavori sottopagati e precari, che non consentono di raggiungere quell’indipendenza economica -e persino affettiva- tale da poter decidere di vivere da soli.
Per la prima volta dal Dopoguerra in poi, assistiamo al triste fenomeno di nuove generazioni con aspettative economiche e lavorativa di gran lunga inferiori a quelle dei propri genitori. Non solo l’ascensore sociale si è bloccato, ma ha invertito direzione, ha imboccato quella della discesa inarrestabile. Ma lo spirito di adattamento del neoliberismo, la potente e persuasiva ideologia dei nostri tempi, è riuscito a trarre da questa involuzione socio-economica nuova linfa vitale.
Il mercato, si sa, se lasciato libero di operare riesce sempre a trovare inediti e remunerativi spazi: è il settore dei single, in particolare dei giovani, bacino di mercato in forte espansione. Secondo le rilevazioni Istat (2018) nella fascia d’età tra i 25 e 34 anni ben  l’81% degli uomini e il 65% delle donne non sono sposati. Se confrontiamo i dati con quelli riportati nel 1991 troviamo una diminuzione di oltre 3 milioni del numero dei coniugati.
È stato calcolato che, entro il prossimo decennio, gli under 34 single arriveranno a essere un quinto della popolazione.
Si tratta di una generazione cresciuta con il culto di “Sex and the city”, della donna emancipata, che non ha bisogno di una stabilità affettiva perché la carriera (quale?), la promiscuità nelle relazioni e il mondo sbrilluccicante dei locali e dello shopping riempiono già la sua appagante vita metropolitana.
Così la precarietà, detta in modo più edulcorato “flessibilità”, propagandata dalle aziende e dal mainstream come un valore, irrompe anche nei sentimenti.
Essere single è bello, per gli uomini e per le donne, consente all’individuo di accedere a un bacino illimitato di scelta di potenziali partner, nella ricerca di quello “perfetto”, in grado di appagare ogni nostro desiderio, capace perfino di compensare quel vuoto esistenziale che la deprivazione del proprio futuro ha generato.
Sedotti dalla nuova narrazione del glamour e del cool, ci si conforma e si aderisce a uno stile di vita indotto, facendo, inconsapevolmente, di necessità virtù.
A giovarne, come sempre, è la legge del profitto che regge il libero mercato. Secondo uno studio di Coldiretti, un single spende mediamente il 64% di più rispetto a un individuo che vive in coppia. Nello studio vengono conteggiati i maggiori costi per l’abitazione -affittare o acquistare un monolocale è proporzionalmente più caro rispetto al corrispettivo speso per una casa più grande- e per la spesa -le monoporzioni di alimenti sono più care rispetto a quelle di maggiore formato- ma anche le spese per la ricerca del benessere psico-fisico.
Già, perché chi è solo e coltiva questo modello di vita edonistico, in cui si è single per scelta, per le infinite opportunità che questo status offre, spende mediamente gran parte del proprio budget -sia esso derivante dal proprio lavoro o da aiuti familiare- per la cura di se stesso e delle attività ricreative.
Una corsa al divertimento e allo svago, altrimenti detta “felicismo”, che spinge a vivere più esperienze possibili, dagli acquisti compulsivi al viaggiare in modo consumistico, in una continua bulimia di piacere. Uno scenario houllebecquiano, in cui il desiderio non si appaga mai, ma si rinnova continuamente, con grande gaudio del mercato, che rende le merci e i servizi sempre più accessibili, attraverso quella deflazione salariale e quella deprivazione di tutele che sono alla base della precarietà lavorativa ed esistenziale.

 

Pubblicato sul mensile
Cultura e Identità
Mese di ottobre 2019
https://culturaidentita.it

 

 

 

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